Blognotes n 17
Blognotes 17

TOTEM & TABÙ
è il tema del numero 17 di Blognotes

Articolo presente in

Cannibalismo & cannibalismi

di Elisa Meloni. Foto di Gianni Pignat. Yanomami, Venezuela, 1990
Venezuela_Foto di Gianni Pignat

“Più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”, Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto XXXIII, v. 75.

È il tabù supremo. Per la maggior parte delle persone l’idea di mangiare carne umana è ripugnante, anche in caso di assoluta necessità come nel famoso episodio dei sopravvissuti delle Ande (1972).1

Peraltro, dobbiamo rimanere in America Latina per  orientarci dal punto di vista linguistico, dato che  la parola cannibale deriva dallo Spagnolo canibal, variante di caribal: i Caribi, la prima tribù india con cui vennero a contatto i Conquistadores nelle Piccole Antille, erano antropofagi. Un nome così esotico era perfetto per indicare l’antropofagia, dato che all’epoca della scoperta delle Americhe antichi riti e simboli che lo richiamavano erano misconosciuti, o al più visti come leggende.

Sappiamo ora che il cannibalismo è presente in molte specie animali, dagli insetti – ben noto il caso delle api operaie usate come nutrimento per l’ape regina – ai primati come gli scimpanzé. Questi ultimi sono, insieme ai gorilla, i primati a noi più affini. Tra i gorilla il maschio dominante uccide il piccolo perché – non allattando – la madre torna in estro entro pochi giorni e può accoppiarsi con lui, garantendogli successo riproduttivo e la possibilità di tramandare i propri geni.

Per gli scimpanzé – che non hanno la struttura sociale ad harem dei gorilla – i rari casi di cannibalismo dopo uccisione di un adulto pare avvengano dove il numero di femmine è inferiore a quello dei maschi. Le principali ragioni di questi comportamenti sarebbero dunque la concorrenza riproduttiva (mangiare i cuccioli per concorrenza genetica con i rivali), il sovraffollamento e la penuria di risorse.

È molto probabile che i nostri antenati più antichi abbiano posto in essere pratiche cannibaliche, soprattutto nei confronti dei piccoli, per sopravvivere alla carenza di cibo, e per le stesse ragioni già dette a proposito dei primati. Questo comportamento avrebbe presto determinato l’estinzione della specie, se non fossero intervenute le femmine a ostacolare l’uccisione dei piccoli. La sessualità permanente della femmina con l’abolizione dell’estro (periodo fertile  limitato nelle femmine dei primati) è stata la pratica messa in atto per la sopravvivenza e per attenuare l’aggressività.

Ci sono tracce fossili su ossa di ominidi risalenti a 1,45 milioni di anni fa che dimostrano l’uso del cannibalismo già allora, e sembra che  circa un quinto delle società nel corso dei millenni lo abbia praticato. Compaiono segni di questo comportamento persino nel genoma umano: nei  Fore di Papua-Nuova Guinea è stata trovata una mutazione genetica che li protegge dal kuru, una “malattia da prioni” come il morbo della mucca pazza, trasmessa attraverso il cannibalismo rituale dei defunti per ingestione di carni infette. La malattia colpiva soprattutto le donne, e causava un numero altissimo di decessi. Questa “protezione” genetica è però ancora discussa, e non è certo che si tratti di un adattamento della specie umana all’antropofagia.

Per comprendere meglio il fenomeno, è necessario fare ricorso a Ewald Volhard, antropologo tedesco, che scrisse nel 1939 un testo tuttora di riferimento e propose una classificazione del cannibalismo2. Egli elencò un cannibalismo “profano” legato a esigenze pratiche, ma non del tutto privo di aspetti di sacralità; un cannibalismo “giuridico” conseguente a una punizione inflitta; un cannibalismo  “magico”, mirante ad assumere le caratteristiche di chi veniva mangiato, per terminare  col cannibalismo “rituale”, dotato di valori simbolici: consumo dei parenti, principalmente del padre e degli antenati, e celebrazione delle vittorie in guerra.

È questo aspetto rituale il più interessante. L’origine del fenomeno sarebbe da cercare nel tentativo umano di far fronte al timore della morte. Le feste dei morti avevano questo scopo, e lo attuavano sia con l’usanza di sacrificare vittime per i defunti, che di consumare i cadaveri per acquisirne le qualità  (cosiddetta patrofagia), e incorporarli dentro di sé. Benché questi riti risalgano all’origine della storia della specie umana, sono ancora presenti in popolazioni isolate dal resto del mondo.

Tutto questo può apparire lontanissimo da noi, ma non è così. E’ stato un grande studioso italiano, Piero Camporesi, a indagare sul cannibalismo in epoche  recenti, sia in ambito italiano che europeo: l’autore afferma che non si saprà mai quante tonnellate di carne umana fossero state consumate nell’età moderna3.
Ciò accadeva a causa di carestie, pestilenze, saccheggi e guerre, che a loro volta generavano altre carestie, e ne rimase abbondante traccia nelle cronache dell’epoca riscoperte da Camporesi.

Nella farmacopea di quei secoli, inoltre, si faceva uso  omeopatico di una sostanza chiamata “mumia”, in origine ricavata da mummie egizie polverizzate, ma in seguito derivata da “carne di cristiano rinsecchita e stagionata, solitamente affumicata sotto il camino degli apotecari”4.
La sostanza in questione era considerata una sorta di panacea. Intorno al 1600, è documentato che le ceneri delle ossa umane si prendevano “con utile profitto”5 in vino o liquore (nel saint vinage6 le reliquie di Sant’Antonio abate erano poste a contatto col vino a scopo purificatorio, poi si filtrava il tutto e si faceva bere, guarda caso, contro il fuoco di sant’Antonio!). Si può senza dubbio affermare la permanenza in epoca moderna di una visione del mondo e di una ritualità pagana per niente scalfite da millecinquecento anni di Cristianesimo.

Nonostante la presenza di queste testimonianze provenienti dal cuore della cultura europea, il tema del cannibalismo è stato controverso al punto che, perfino in campo antropologico, c’è stato chi è arrivato a negarlo completamente, come lo studioso americano William Arens in un testo del 1979, Il mito del cannibale.

Noi però non ne dubitiamo, anche perché abbiamo avuto la fortuna di poter ascoltare i racconti di un testimone oculare, che ha vissuto per un mese con gli Yanomani in Venezuela. Parliamo con Gianni Pignat, fotografo e viaggiatore, che ci racconta del rito funerario praticato da quella tribù amazzonica: il morto viene lasciato decomporre, si raccolgono le ossa e si cremano, le ceneri sono mischiate a frutti di banano fermentati per creare una bevanda, che infine viene ingerita dai familiari. Le stesse ceneri possono anche essere aggiunte ai cibi, dove avrebbero la funzione del sale. Il significato di questi e altri riti similari è di “mantenere l’esistenza” del defunto, e sono tuttora praticati da alcune etnie.

Facciamo ora un salto temporale negli anni venti del Novecento, ma restiamo geograficamente vicini agli Yanomami, (che, non conoscendo confini, si espandono dall’Amazzonia venezuelana a quella brasiliana), per trovare in Brasile il movimento culturale degli Antropófagos. Nel 1928 fu pubblicato a San Paolo il Manifesto antropófago, a opera di un gruppo di artisti e scrittori. Essi definirono la cultura brasiliana come il risultato della cannibalizzazione di altre culture, europee e non europee. Allo scopo di rovesciare il concetto di colonizzazione culturale, essi proposero di divorare la cultura europea, e digerirla per creare un’arte essenzialmente brasiliana.7

Anche in altri ambiti culturali si è usata la parola cannibalismo come metafora  di sovversione, e probabilmente l’esempio più divertente è stato il Cannibal Club. Era un club e ristorante londinese fondato da Sir Richard F. Burton nel 1863, e associato alla Società di Antropologia di Londra. L’ideatore del Club, personaggio alquanto sulfureo, (esploratore, scrittore, traduttore delle Mille e una notte, diplomatico che ebbe per destinazione finale Trieste), affermò di essere interessato al cannibalismo, e  che rimpiangeva di non avervi mai assistito.

Aldilà delle dichiarazioni che servivano ad alimentare la sua leggenda personale, lo scopo di Burton e soci era di avere un punto d’incontro, nel quale le idee sovversive di tutti i tipi potessero essere liberamente espresse. Considerato che si era in piena epoca vittoriana, non si può che ammirare il coraggio della provocazione e l’originalità dell’idea.

Al termine di questo rapido excursus, resta da dire che chi scrive ha dovuto divorare una notevole quantità di materiale sul cannibalismo, per poi sintetizzarlo una volta digerito… perciò un invito al Cannibal Club lo avremmo accettato con grande interesse e senza timori!

Note bibliografiche

1- Ci pare estremamente interessante leggere cosa disse in seguito uno dei sopravvissuti, Roberto Canessa,  uomo profondamente religioso e divenuto in seguitoi chirurgo pediatrico: “Il cannibalismo è quando si uccide qualcuno, quindi tecnicamente nel nostro caso si tratta di antropofagia. Ho avuto queste discussioni per 40 anni. Non mi interessa. Dovevamo semplicemente mangiare questi corpi morti. (…) La decisione di accettarlo intellettualmente è solo un primo passo. Il passo successivo è metterlo in pratica. E questo è stato molto difficile. La bocca non vuole aprirsi perché ci si sente così infelici e tristi per quello che si deve fare. (…)  Poi, però, ho pensato che se fossi stato ucciso, mi sarei sentita orgoglioso del fatto che il mio corpo potesse essere usato per la sopravvivenza di altre persone.  Abbiamo fatto un patto: se fossimo morti, avremmo donato i nostri corpi al servizio del resto della squadra”. https://news.nationalgeographic.com/2016/04/160403-andes-uruguay-rugby-cannibal-plane-crash-canessa-ngbooktalk/

2- L’Autore, appartenente alla scuola di Antropologia tedesca, scomparso in guerra nel 1944, mostra una  mancanza di pregiudizi inattesa per il contesto culturale (la Germania nazista) in cui si trovava ad agire: “Il fenomeno (…) si dimostra, qualora lo facciamo parlare da se stesso, come l’espressione di un particolare orientamento di fronte al mondo e alla vita, al quale dobbiamo appressarci con la massima modestia. (…) E se (…) le ricerche future non si occupassero più soltanto dei fenomeni antropofagici come tali, ma si dedicassero piuttosto a scoprire i sensi dei riti e delle azioni di cui il cannibalismo appare una forma espressiva come un’altra, il compito di questo studio potrebbe dirsi adempiuto”.

3- P. Camporesi, Il pane selvaggio, (Bologna: Il Mulino, 1985).

4- P. Camporesi, I balsami di Venere, (Milano: Garzanti, 1989).

5- P. Camporesi, La carne impassibile, (Milano, Il Saggiatore, 1983).

6- A. Montanari, Il fiero pasto, antropofagie medievali. (Bologna: Il Mulino, 2015).

7- La frase più famosa del manifesto, in inglese nell’originale,  è: “Tupi or not tupi: that is the question”. In italiano “Tupi o non Tupi” è un riferimento alle tribù brasiliane Tupi, e il gioco di parole ironizza sulla celebre frase dall’Amleto di William Shakespeare: “To be or not to be…”, dato che la pronuncia suona più o meno eguale!