Il termine ”tabù” possiede una sostanziale ambivalenza: può significare ciò che è ”proibito” da un lato e dall’altro ciò che è ”sacro”. E’ un’ambivalenza che può diventare strada maestra nella vita di ognuno di noi: guardiamoci dalle certezze assolute e teniamo sempre presente l’eventualità di un’altra faccia della medaglia.
Nella vita individuale possiamo legare la formula ”totem e tabù” alla continua lotta tra vittoria e sconfitta. Se da un lato siamo alla costante ricerca di vittorie, dall’altro lato incombe il rischio delle sconfitte.
Tendiamo a considerare vita riuscita quella caratterizzata dalla vittoria, ma spesso dietro questa riuscita si cela un narcisismo che restringe gli orizzonti.
Consideriamo vita sbagliata quella segnata dalla sconfitta, ma non è cosa certa. La sconfitta è generata da errori la cui presa di coscienza può aiutare a crescere. Se è vero che dagli errori si può imparare allora anche la sconfitta può avere una sua positività: può stimolare la presa di coscienza dei propri limiti, della propria fallibilità e, conseguentemente, può aiutare ad esercitare quella grande dote che è l’umiltà.
È anche importante non dimenticare che dietro ogni riuscita spesso può scorrere il fattore della ”sincronicità” e cioè la convergenza, secondo il concetto elaborato da Gustav Jung, di tutta una serie di eventi inspiegabili che assumono grande rilevanza per la persona, senza che siano stati cercati coscientemente, e che esulano da una spiegazione solo razionale.
È quello che intendiamo pure col termine ”serendipità”, applicabile a molte invenzioni e scoperte arrivate dopo un percorso costellato di errori e con soluzioni finali ben diverse da quelle concepite inizialmente.
È il fattore ”fortuna” il cui peso in ogni vita ha la sua grande incidenza.
Ho trovato da qualche parte una bella immagine: ”quel soffio che ci ispira quel qualcosa”: un soffio che parte da un nostro luogo talmente intimo da rimanere inaccessibile anche a noi stessi, un luogo ove abita una nostra passione e da cui partono spontaneamente azioni che non abbiamo pensato e che continuano a stupirci anche a distanza di tempo. Occorre avere l’umiltà di riconoscerlo: certe nostre vittorie sono conseguenza non tanto di capacità quanto di un fortunato stato di grazia.
Scomodiamo ancora Jung che in ”Tipi psicologici” descrive l’estroversione e l’introversione sottolineando il senso unilaterale di entrambi gli orientamenti. L’uno si preoccupa di sviluppare relazioni col mondo esterno sacrificando il mondo interiore, l’altro si preoccupa essenzialmente del mondo interiore trascurando quello esteriore. In entrambi i casi è fondamentale che l’individuo si occupi di ciò che ha trascurato alla ricerca di un equilibrio.
L’estroversione può sicuramente essere più funzionale al raggiungimento del successo, alla riuscita sul piano personale e professionale. Può invece rappresentare un problema l’introversione, specialmente in questo mondo dominato dall’estroversione, un mondo caratterizzato dal rumore, dall’immagine, dal protagonismo: si, l’introversione può diventare un problema, ma anche un importante e utile strumento di riflessione e maturazione.
Suggerirei la lettura di un volume, apparentemente indirizzato ai ragazzi ma che potrebbe risultare utile un po’ a tutti (”Il tesoro che ho dentro. Il diario degli introversi’‘ Piemme 2024), con il quale Lenka Blaze propone un percorso, con tanto di esercizi, che aiuti a superare la tendenza a sottovalutarsi, a dubitare delle proprie forze, e spinga a focalizzare le proprie risorse.
Possiamo ora considerare una delle tesi esposte da Freud in ”Totem e tabù” e cioè la definizione di coscienza morale come frutto del senso di colpa. Un sentimento molto più presente nell’introverso, portato spesso a sentirsi inadeguato, diverso, fuori posto. Può esserlo, può non esserlo, ma di fatto anche lui può avere e far emergere la sua unicità. Perché, ognuno di noi vale, al di là di vittorie e sconfitte, per il fatto di essere unico, inimitabile, irripetibile. Almeno fino a quando tutto ciò non verrà messo in discussione da un progresso tecnologico che appare inarrestabile.
Oggi si fa un gran parlare di intelligenza artificiale, ci sono ricercatori ossessionati dalla possibilità di dare un’anima alla macchina, siamo in presenza di un’accelerazione forse già sfuggita al nostro controllo e che non sappiamo dove potrà condurre. Naturalmente dobbiamo confidare che mai si possa arrivare a privare l’uomo del suo essere unico: vorrebbe dire togliergli il suo tratto imprescindibile e aprire la strada ad un mondo dominato definitivamente dalle varie forme di ”schiavitù”.
Consiglierei la lettura del volume di Stuart Jeffries ”Tutto sempre e ovunque. Come siamo diventati postmoderni” (EDT 2024). Ecco alcune sue parole: ”il mondo digitale ci permette di accedere a tutto, subito sempre ovunque, e al contempo istituisce una nuova società della sorveglianza che, nella sua raffinatezza e nella sua diversità, appare ancora più totalitaria e oppressiva di quella descritta da George Orwell dal momento che i diabolici geni del neoliberismo, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos, non hanno bisogno di recitare la parte del Grande Fratello. Ci hanno convinto a interpretare noi stessi quel ruolo, forse non abbiamo mai desiderato essere veramente liberi, forse, riflette Byung-Chul Han, la libertà è un peso intollerabile e perciò abbiamo inventato Dio, allo scopo di essere colpevoli e in debito per qualcosa.
Poi, dopo averlo ucciso, abbiamo riversato la nostra fede nel capitalismo: come Dio ma in maniera più efficiente, il capitalismo ci fa sentire in colpa per i nostri fallimenti e ci spinge a immergerci in un mare di debiti paralizzanti…questa idea a me sembra effettivamente rispecchiare quel che è accaduto dalla crisi economica del 2008 in poi, quando abbiamo iniziato a lavorare di più a guadagnare di meno”.
Dunque, stiamo parlando di fallimento, forse un fallimento epocale. E’ anche vero che l’uomo ha spesso dimostrato di saper capovolgere situazioni rovinose. Ma qui siamo di fronte ad un percorso lineare apparentemente senza soluzione di continuità presente e futura: è solo apparenza? Ci sarà la volontà di prendere decisioni e cercare soluzioni veramente intelligenti e coraggiose? In ogni caso di fronte all’idea di un fallimento epocale diventano ben poca cosa le vittorie e le sconfitte individuali.
Con un volo pindarico, ma non più di tanto, passerei a considerare il volume di Irving D. Yalom ”Fissando il sole. Come superare il terrore della morte” (Neri Pozza 2017-Beat 2020).
Yalom parte dal concetto che il timore della morte può essere maggiore se più forte è il senso di aver sprecato la vita: è un’ idea molto forte e molto interessante.
Riporto le parole finali del libro: ”l’ansia accompagnerà sempre il nostro confrontarci con la morte”.
Indice
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