Viene da chiedersi cosa succederà in California, culla della cultura “wokisina”, espressione italianizzata dall’inglese dell’aggettivo inglese “woke” con il quale ci si riferisce letteralmente alle “stare svegli ” nei confronti di comportamenti ed atteggiamenti sensibili alle ingiustizia sociali e di genere.
L’elezione di Trump ha riportato infatti il baricentro delle politiche di genere sul focus maschio-femmina, visto che nella sua prima giornata di attività, il Presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo che porta al riconoscimento di due soli generi: maschile e femminile. In più, con il suo secondo atto esecutivo ha praticamente azzerato i programmi che con la precedente amministrazione cercavano di garantire i progetti di inclusione. Si tratta di una posizione che ha ricadute non solo negli Stati Uniti, ma anche a livello internazionale e che possiede declinazioni anche politiche, sulle quali si sta accentrando l’attenzione.
Condivido un’esperienza che mi ha portata, a novembre 2024, a contatto con due testimoni privilegiate della prassi “wokisina” in California, Anna, amica d’infanzia di Gemona che insegna “Introduzione al Cinema, Cinema italiano” all’Università di Santa Barbara e Andrea, guida didattica per gruppi di visitatori al museo d’arte Lacma di Los Angeles e formatrice. Per delineare alcuni aspetti che i cambiamenti in atto possono far emergere: sia l’estremizzazione della cultura delle diversità, sia un ritorno alla distinzione di due soli generi.
La maggior parte delle scuole, università e istituzioni, aziende e organizzazioni fino a poco tempo fa hanno adottato in California politiche per promuovere l’inclusività, perciò sia il corpo docente dell’Università ha seguito, e chissà se continuerà a seguire, corsi ad hoc in materia, sia le guide dei musei hanno seguito corsi preparatori, in modo da rivolgersi in maniera appropriata a ciascun visitatore.
Andrea, in qualità di formatrice, quando ha formato le giovani guide in stage affinché la affiancassero nell’attività di guida museale, ha sempre fornito una specie di lista molto pratica di supporto alla comunicazione, una specie di memorandum per evitare di incappare in grossolani errori di discriminazione, distillata dalla sue esperienze. Riporto una sorta di piccolo decalogo delineato dai miei contatti californiani, nel quale possono essere colte anche alcune contraddizioni che la California, nota per un certo progressismo, ha sempre mantenuto in linea, anche durante la prima amministrazione Trump, continuando a perseguire politiche di inclusività e supporto nei confronti delle minoranze di genere. Con la seconda elezione di Trump i cambiamenti si sono già visti, e staremo a vedere se e come la California, come Stato, farà di tutto per mantenere le sue posizioni, come è probabile, lasciando invariate le “linee guida” di una politica inclusiva a 360 gradi, della quale ricordiamo alcuni aspetti generali.Uso di pronomi inclusivi. E’ importante chiedere e usare i pronomi preferiti delle persone (ad esempio, “lui”, “lei”, “loro” in italiano corrispondono a “he”, “she”, “they” in inglese). Quest’ultimo si usa in caso di genere non dichiarato. Ma questi ” they “, spiega sorridendo Anna, ci si può chiedere in quanti arriveranno se magari si deve programmare una uscita didattica assieme e nella frase è stato usato il tempo passato che non da conto della singolarità o pluralità? Uno, due, di più…
Molte scuole, molte organizzazioni incoraggiano a dichiarare i propri pronomi per evitare errori o fraintendimenti. È in ogni caso meglio evitare il linguaggio binario, conferma Andrea, dato che molte persone si identificano come non binarie o genderqueer, quindi l’uso di termini come “loro” (they) come pronomi singolari è diventato sempre più accettato e rispettoso.
Al punto che nella presentazione di un quadro di Picasso che riportava il ritratto di un uomo ed una donna, Andrea è stata istruita ad usare l’espressione attribuibile a un uomo e una donna”. Caldamente consigliato di evitare frasi come “tutti gli uomini” o “tutte le donne” per includere persone non binarie o gender-fluid e piuttosto è meglio usare termini più neutrali come “tutti”, “persone”, “individui” o “collaboratori”, perciò a volte ci si trova a fare lo slalom all’interno di ampi giri di parole.
Il riconoscimento delle identità di genere deve necessariamente ampliarsi ed oltre a “maschio” e
“femmina” devono entrare nel vocabolario della docente e della guida, ma di tutti in ogni situazione, altre identità di genere, come non binario, agender, genderfluid, etc. e questo deve essere accettato nel rapporto. Attenzione particolare deve essere messa per evitare espressioni con stereotipi di genere e nello stesso tempo bisogna che accettare e rispettare quelle che vengono definite come le “autocategorie”. Cioè i termini che le persone scelgono per definire la propria identità di genere e questo è quanto basta sapere. Una legge californiana vorrebbe vietare agli istituti scolastici di informare i genitori nel caso in cui i figli avessero deciso di attuare una transizione sociale, ad esempio la variazione del nome di genere da Mario a Marianna. E ancora: un insegnante deve tenersi in costante aggiornamento, dato che il linguaggio evolve e le terminologie cambiano, capisco perciò dalle spiegazioni di Anna, che è importante rimanere informata sulle parole più appropriate o rispettose ed evitare termini obsoleti o stigmatizzanti. Infine un’ultima regola pratica: meglio usare un linguaggio neutro nelle comunicazioni scritte e verbali dal punto di vista di genere.
Ad esempio, invece di “il pittore” o “la pittrice”, posso dire “la persona che dipinge”, oppure per indicare o l’allievo o l’allieva, meglio usare la persona che frequenta questa università. Ci sono altre espressioni linguistiche assolutamente tabù.
Sicuramente vietatissimi i termini razzisti e gli stereotipi etnici: non solo “N-word” (negro, in forma offensiva), ma anche “Chinaman”, oppure “Jap” (riferimenti razzisti verso asiatici) o anche “Redskin” (termine dispregiativo per i nativi americani), quelli che da noi si identificano appunto con Pellerossa. Una certezza ce l’ho: dopo aver letto tanti giornalini di Tex Willer per anni, ora sono certa che Pellerossa non si può usare! Nativo americano è accettabile, meglio indigeno americano, ma infine ancora meglio riferirsi alle regioni d’appartenenza, ad esempio Nawaho, Hopi, Sioux. Proibito anche fare commenti sul corpo o sull’aspetto fisico di qualcuno, in modo sessualizzato o inappropriato, perché potrebbe costituire una forma di molestia.
Così durante una passeggiata volevo condividere con Anna la considerazione che c’erano molti surfisti in spiaggia, di tutte le età, ma vista la delicatezza del tema ho omesso.
Visto che con noi c’erano altre persone, forse avrei dovuto usare un giro di parole del quale non ero sicura, dicendo che sono a prima vista appartenenti al sesso maschile e prestanti.
Mi sono perfino chiesta se questa espressione avrebbe potuto essere considerata come una “microaggressione”. Cioè un commento o comportamento che, sebbene possa sembrare innocuo, involontario, perpetua stereotipi o pregiudizi. Alla fine per insicurezza evito di far commenti.
Alla luce dei risultati del voto, verrebbe forse da chiedersi se diverse persone negli Stati Uniti non abbiano percepito un certo senso di costrizione e di artificio un po’ integralista nelle politiche inclusive e magari, anche alla luce dei costi che i processi di educazione all’inclusione comportano, non lo abbiano trasformato in uno degli aspetti che hanno portato al voto per Trump.
Di certo sul piatto si oggi spicca la questione dei documenti visto che ora vengono riconosciuti solo due sessi : cosa succederà per le persone che avevano scelto di mettere X sul loro passaporto? Resterà valido il documento?

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