Blognotes n 17
Blognotes 17

TOTEM & TABÙ
è il tema del numero 17 di Blognotes

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Totem e tabù sul grande schermo

di Andrea Crozzoli

Non pensava certo al cinema Sigmund Freud quando diede alle stampe nel 1913 “Totem e tabù” il cui sottotitolo precisava “somiglianze tra vita mentale dei selvaggi e dei nevrotici” (Totem und Tabu: Einige Übereinstimmungen im Seelenleben der Wilden und der Neurotiker). Dopo oltre centodieci anni dalla pubblicazione ci prendiamo, quindi, la libertà di allargare lo spettro semantico di “totem”. E uno dei totem più frequentati sul grande schermo, soprattutto americano, è quello del denaro, declinato nell’avidità e nel suo ossessivo possesso. Esattamente cento anni or sono, nel 1924 quasi coevo al testo di Freud, quando la settima arte era muta, Erich von Stroheim definì il proprio capolavoro con queste parole: «Sono convinto di aver fatto un solo film in vita mia e nessuno l’ha mai visto. I poveri resti di questa mia opera, mutilati e sfigurati, furono presentati con il titolo di Greed.».

Film costosissimo, mutilato dalla produzione, resterà un unicum nella storia del cinema. Infatti è giunta a noi una versione di Greed di soli 140 minuti, mentre era di sette ore la durata originariamente prevista da Stroheim. Le famose “mani ossute” che frugano in mezzo a piatti e vasellame d’oro, simbolo onirico del film: ovvero la rapacità, la smodata avidità, come desiderio ossessivo e convulso di possesso restano fra le scene indimenticabili dedicate alla bramosia. Un cinema ferocemente e strenuamente libero, non solo per la sua anti convenzionalità, ma per la sua insofferenza a tutte le regole castranti imposte da Hollywood.
Si dovrà aspettare il sonoro e Orson Welles con
Quarto potere (1941), ispirato alla vita del ricco editore americano William Randolph Hearst, per rivedere sullo schermo l’avidità e la bramosia del denaro. Il film è un grande affresco sull’esistenza di un uomo mosso dalla sete di potere e ricchezza, ma tormentato da oscuri ricordi d’infanzia e da traumi irrisolti. Welles si affida a una struttura del racconto frammentata in differenti punti di vista, contrastanti, incoerenti e a numerosi flashback che aumentano il senso di disorientamento. Un film che, sia dal punto di vista narrativo che da quello formale ed estetico, ha segnato un nuovo capitolo dell’arte cinematografica per la potenza rivoluzionaria, visionaria e geniale, che ha poi contraddistinto tutta la carriera di Orson Welles. “Greed is good“, l’avidità è buona: è il motto di un altro indimenticabile “cattivo” del cinema a stelle e strisce, interpretato da Michael Douglas – premiato con un Oscar – nel film Wall Street (1987) di Oliver Stone in cui si narra la storia di un uomo che si è arricchito oltremodo grazie alla propria conoscenza del mercato finanziario. Mercato che pone l’avidità al di sopra di qualunque valore o affetto.
Un’altra performance da Oscar su cui è stato costruito un film straordinario è
Il petroliere (2007) di Paul Thomas Anderson con un maestoso Daniel Day-Lewis nella sua miglior prova d’attore di sempre nella parte di Daniel Plainview, magnate del petrolio. Opera cupa, inquietante esplorazione dell’avidità e della violenza in uno dei personaggi più sinistri del cinema americano contemporaneo assieme a Non è un paese per vecchi (2007) dei fratelli Cohen imperniato su una valigetta contenente due milioni di dollari e contesa avidamente da più persone, meccanismo narrativo che innesca una serie di omicidi per raggiungere l’agognata ricchezza. Oppure The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese con Leonardo Di Caprio nei panni di un broker di New York che conquista, sempre avidamente, una fortuna. In questo elenco, volutamente parziale, abbiamo citato solo alcuni casi significativi di avidità elevata a totem, a cui fa da contraltare – sempre allargando lo spettro semantico questa volta della parola “tabù” – la miseria, l’indigenza, la povertà. Quello della rappresentazione della povertà, seppur con prospettive e angolature diverse, è un tema percorso al cinema sempre con grande delicatezza, pudore e rispetto, un vero e proprio tabù. Da The Tramp, il vagabondo per antonomasia, perennemente “povero in canna”, che Chaplin non abbandonerà mai, dove il dramma dell’indigenza lo condurrà ad essere l’ostinato portavoce di vagabondi, orfani, emigranti, sempre, però, con umanità e ironia. Indimenticabile ne La febbre dell’oro (1925) dello stesso Chaplin la scena, contemporaneamente umoristica quanto drammatica, in cui Charlot consuma il suo pasto “da povero”: ossia una scarpa bollita con tanto di lacci simili a spaghetti. Questa lotta, a volte radicale, contro il tabù dell’indigenza assumerà nel cinema italiano, più votato ad una visione buonista/cattolica, i contorni di uno degli aspetti più sottaciuti, negati o mascherati pudicamente quasi da un senso di vergogna, di inadeguatezza. Geniali autori come Vittorio De Sica e Roberto Rossellini capirono, inoltre, che la visione della povertà proposta dal cinema del neorealismo, per avere maggiore impatto emotivo, doveva passare anche attraverso gli sguardi dei bambini.locandina Roma cittù aperta

Basti pensare all’ultima sequenza del più celebre film del neorealismo Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, in cui un gruppo di ragazzini si avviano soli e in silenzio alla volta della città dopo che tutti gli adulti sono stati giustiziati dai nazifascisti. Oppure al ruolo del piccolo Bruno in Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica che, oltre ad aiutare il padre nella ricerca della bicicletta rubata, con il suo lavoro di benzinaio diviene l’unico sostegno economico della famiglia. Accanto ai bambini anche l’altra fascia debole della società, gli anziani, diventano oggetto di indagine a proposito di miseria, solitudine, dignità umana, tutti tabù che rappresentano i perni sui quali ruota Umberto D (1952) sempre di Vittorio De Sica. Storia semplice e feroce di Umberto Domenico costretto a condurre una vita di stenti dopo decenni di lavoro. In questa sorta di discesa vertiginosa verso la disperazione matura nel protagonista il desiderio di suicidarsi. Il film è considerato una delle opera più significative di tutto il neorealismo italiano e ricevette una nomination all’Oscar nel 1957 per il soggetto di Cesare Zavattini, sfiorando la Palma d’oro a Cannes e ricevendo il premio dai critici di New York oltre alle ferocissime critiche del “divo” Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che vedeva di cattivo occhio la miseria dell’Italia portata, attraverso il cinema, alla ribalta internazionale. Fu così che i tabù su miseria e indigenza, nel cinema italiano, vennero declinati in versione commedia, come in Miseria e nobiltà (1954) di Mario Mattòli, dove la fame segna profonde divisioni sociali ed economiche. Nel film, per una strana sorte del destino, Totò e compagni sono chiamati a fingersi borghesi attorno ad una tavola imbandita. Con la dignità di chi ha poco ecco che la miseria veste i panni della nobiltà, senza però rinunciare alla sottile critica dell’ipocrisia classista di quel tempo quando l’esilarante Totò si avventa sul piatto di spaghetti, nascondendo anche nelle tasche quelli che non riusciva ad ingurgitare. La povertà è, purtroppo, la costante protagonista della situazione postbellica italiana; una miseria fatta di macerie materiali ma anche immateriali e morali resa sullo schermo attraverso immagini di palazzoni di periferia, androni squallidi, scale interne dissestate, cucinini male in arnese e luride camere ammobiliate. Un mondo fino ad allora sconosciuto al cinema, ignorato, che non esisteva nella rappresentazione culturale di regime del ventennio precedente, impegnato a frequentare solo il filone dei “telefoni bianchi” o della retorica patriottica. Accanto all’indigenza post bellica, alla fine degli Anni ’50 e inizi Anni ’60 arriva la rappresentazione del nuovo sottoproletariato urbano con opere tipo Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini dove il protagonista Ettore, l’adolescente figlio della prostituta Roma, interpretata da Anna Magnani, diventa il simbolo di una povertà non solo e non tanto materiale quanto soprattutto spirituale e intellettuale, incapace di frapporre qualsiasi filtro critico tra le ambizioni piccolo borghesi della madre e la propria totale ingenuità e impreparazione di fronte all’esistenza. Ma sarà ancora una volta la commedia italiana a segnare l’immaginario collettivo, a incaricarsi di portare avanti e sviluppare “il commento-denuncia dei mali della società contemporanea” come sottolineò Masolino D’Amico in Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975.

Fra i tanti titoli ricordiamo Lo scopone scientifico (1972) di Luigi Comencini con Alberto Sordi e Silvana Mangano che vivono nella miseria nera ma fisicamente si trasferiscono, grazie al gioco delle carte, nel mondo sfavillante del sogno economico o il sottoproletariato urbano dell’Italia Anni Settanta in Brutti sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola apologo amarissimo su una realtà sociale altra. Dall’indigenza nelle periferie degradate delle grandi città a quella delle campagne come in Padre padrone (1977) dei fratelli Taviani, Palma d’Oro al Festival di Cannes, opera nella quale i registi sollevano la questione del legame degli umili con la terra e le sue tradizioni ancestrali, o in L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, altro vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes, in cui il sentimento dominante è l’accettazione di uno status quo, di una società portatrice di una morale del sacrificio e della dignità conquistata attraverso il durissimo lavoro nei campi. In ogni caso il tabù nella rappresentazione della miseria resiste tutt’oggi, anche in opere più recenti come C’è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi dove l’indigenza viene nascosta, maldestramente mascherata, nella scena del pranzo per festeggiare il fidanzamento della figliolanza. Anche in questo caso siamo di fronte a una lista parziale di titoli, volutamente lacunosa, che tocca solo alcune eccellenze. Ma, come disse Rossella O’Hara nel finale di Via col vento: «Domani è un altro giorno!».