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Sconfino, ergo sum

Andrea Crozzoli
Sconfino, ergo sum

Il cinema non ha confini, è una lingua transnazionale o transclassista come la definiva Pier Paolo Pasolini, il quale per meglio esemplificare, aggiungeva anche “è un sistema di segni valevole in qualsiasi angolo del mondo. Rappresentare la realtà non attraverso simboli, cioè parole, ma attraverso la realtà stessa. Mostrare la realtà usando la realtà”. A questa regola si uniforma, ovviamente, anche il pregevole documentario Trieste è bella di notte di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre, sul quotidiano orrore che devono subire i migranti attraversando il confine tra Slovenia e Italia. I tre giovani autori attraverso i volti, gli sguardi, i gesti dei migranti, ci immergono nelle loro vite fatte di sofferenza, speranze e frustrazioni. «Dall’Iran ho camminato fino alla Turchia. E dalla Turchia ho impiegato sette giorni a piedi per arrivare in Grecia, viaggiando la notte. E solo per tre ore ci hanno permesso di usare una macchina. Da lì, sono passati altri quattro giorni per arrivare in Macedonia. Poi dalla Macedonia siamo andati in Serbia che abbiamo attraversato con un’automobile. In Bosnia abbiamo viaggiato un giorno e siamo giunti a Bihac. Da qui siamo entrati in Croazia. Altre due settimane di cammino per raggiungere la Slovenia. Ancora quattro giorni a piedi e alla fine siamo arrivati a Trieste» è il tribolato racconto di uno di loro, ben consapevole di essere finito in un “gioco” (chiamato “game”) che si svolge tutto sulla propria pelle. Gioco tragico, teso ad evitare le atrocità commesse dai guardiani dei confini, ma anche ad evitare il respingimento, quello che il Ministero dell’Interno italiano definisce “riammissioni informali”.

Nel 2020, come riporta una didascalia del documentario, l’Italia ha riammesso informalmente 1300 persone in Slovenia, rivendicandone la legittimità nonostante la richiesta di protezione internazionale. In questo crudele “gioco” della vita i migranti richiedenti asilo vengono via via spogliati di ogni diritto e poi rimandati indietro al punto di partenza. Sono tante le suggestioni e le contraddizioni che mette in scena Trieste è bella di notte dei tre registi della ZaLab Film (di cui sono soci fondatori). Tante ma tutte irrinunciabili e doverose in un tortuoso percorso narrativo dove il documentario, intervallando testimonianze dei migranti ai loro video girati rocambolescamente col cellulare, quasi in una sorta di (neo)realismo della vicenda raccontata, a dichiarazioni ufficiali, mescolando racconti drammatici, omissioni, denunce, in un effetto tanto suggestivo quanto contraddittorio nell’esprimere l’inquietudine e paura vissuta dai migranti stessi. Il lavoro di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre fornisce allo spettatore più domande che risposte, in quanto una soluzione, anche non definitiva, sembra apparentemente non esserci. In ogni caso dobbiamo continuare a porci delle domande per tentare di capire, di comprendere quanto accade sotto i nostri occhi. Comprendere anche quel migrante che, quasi al termine del documentario, dichiara: «Per me il momento di maggiore felicità è stato quando abbiamo attraversato il filo spinato dalla Slovenia. In quel momento dalla montagna si vedevano le luci della città nell’acqua. Vederle è stato un momento di grande felicità nella mia vita. Dal confine, dall’alto, di notte, Trieste è molto bella!». In psicoanalisi il confine è considerato il primo gesto della vita, quello che distingue l’interno dall’esterno, l’identità dalla differenza, la propria patria da quella straniera. Il confine, però, deve essere poroso, deve rendere possibile lo scambio fra interno e esterno, fra differenza e identità, deve avere la capacità di transito, di comunicazione. Per questo Trieste è bella di notte è un documentario necessario, poroso.