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Blognotes 08
Blognotes 14
numero 14

Il tema del numero è "CONTAMINAZIONI"

Articolo presente in

Non la morte ma il tempo sia oggetto di riflessione

di Enzo Marigliano, medievalista

Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola

Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli

In questa vita, morire non è una novità,

Ma, di certo, non lo è nemmeno vivere.

Sergej Aleksandrovič Esenin

(03/10/1985 – 28/12/1925)

“Pensare la morte”: tema quanto mai arduo in una società complessa come la nostra, in cui il fine vita è oggetto di scarsa riflessione se non di vera e propria rimozione. Si lascia la possibilità, per il singolo sopravvissuto, nel momento in cui essa si determina concretamente, di farne o meno oggetto d’esame e di scelta comportamentale sia per se che nei confronti dei conoscenti.

La contemporaneità sembra aver tolto alla morte il suo ruolo di motivo centrale della vita cambiando, irreversibilmente, ed in modo decisivo rispetto alle epoche precedenti, il rapporto con essa da parte del sopravvissuto.

Le più recenti analisi sembrano tentare di connettersi col filo lasciato sospeso dal fondamentale libro di Werner Fuchs¹ che, a suo tempo, sembrò aver messo un punto fermo sulla questione.

Se ci riflettiamo, infatti, le immagini odierne della morte sembrano ricondurre tutte ad un “cliché” standardizzato: le formule, delle e nelle necrologie; la sepoltura, che si estrinseca nella triade “cimitero, cordoglio e costumanze”; quest’ultime (fiori, necrologi a pagamento sulla stampa, discorsi di circostanza), poste tutte sul labilissimo discrimine fra tradizione e nuove formule di mercato, come ad esempio le modernissime ed asettiche “funeral house” impostesi anche in Europa desunte dal modello americano.

Richard Janssens, Il mio nuovo cellulare, 90 x 130 cm, Acrilico e olio su tela

Il rapporto, totalmente diverso, non solo comportamentale ma soprattutto nel “sentire”, fra la globalizzazione contemporanea e la civiltà agraria sopravvissuta, grosso modo, fino alla metà del XIX secolo, sono lo specchio evidente della dissoluzione del modo di vivere il fine vita nella famiglia patriarcale, che ha lasciato il posto a quella mononucleare, imponendo riti e miti anche nelle aree rimaste parzialmente non industrializzate.

Come aveva intuito Pier Paolo Pasolini l’inurbamento ha cancellato ogni segno significante della vita collettiva agreste.

Perché ho voluto riprendere il tema?

Me ne ero occupato per la prima volta dalle pagine del mensile della Casa dello Studente, «Il Momento»², poco dopo i funerali dell’operaio Guido Rossa ucciso dalle BR, svoltisi il 27 gennaio 1979: aprimmo, all’epoca, un dibattito che si sviluppo per due numeri della rivista, cui presero parte Sergio Chiarotto, Mons. Luciano Padovese ed altri. Da allora non ho più avuto occasione di riprendere l’argomento.

La prima considerazione è che viviamo un periodo in cui siamo quanto mai circondati dalla morte.

Per molti versi, i parametri con cui l’Occidente, o meglio la cultura occidentale, si misura con questo fenomeno naturale sono mutati notevolmente eppure, ciò nonostante, non sono stati adeguatamente riletti.

A ben vedere il libro di Fuchs, risalente all’inizio degli anni ’70, inevitabilmente risulta superato.

Nel decennio successivo la mia (nostra) generazione, che pure avrebbe dovuto essere anagraficamente quella successiva alla Seconda Guerra Mondiale, ha vissuto nel frattempo la conclusione delle guerre balcaniche (Serbia, Kossovo, ecc), ed anche allora si disse che “…per la prima volta dal 1945 si svolgeva un conflitto nel cuore del vecchio continente”. Poi si sono dipanate le code delle guerre interetniche africane; l’infinita catena del conflitto in medio Oriente, sempre in costante fibrillazione; dopo il 2001 ci siamo lasciati alle spalle la tragedia delle Torri Gemelle e, nel contempo, si sono sviluppate le vicende afgane, Irakene, curde, gli attentati nelle città occidentali, il fondamentalismo islamico, le brutali repressioni sulle donne iraniane… Alla nostra generazione, peraltro, è toccato passare attraverso la pandemia: vero spartiacque tra un prima ed un dopo nella percezione “globale” di un fine vita collettivo, persino nei tempi, oltre che nelle forme che rinviavano alle pestilenze medievali.

Stiamo vivendo, da un anno, un’altra guerra: questa volta sì non solo nel cuore dell’Europa, ma che, rispetto all’implosione balcanica dell’ex Jugoslavia, vede coinvolte di fatto tutte le potenze, tanto da rendere credibile l’ormai abusata definizione di “Terza guerra mondiale a pezzetti” magistralmente coniata da Papa Francesco. Tutti questi conflitti, a loro volta, nel generare fame e paure sono la premessa per le migrazioni di popoli numericamente appena all’inizio e destinate, inevitabilmente, a crescere in modo esponenziale ed in forme inedite che, a loro volta, producono le stragi in mare dei migranti ed i drammi della rotta balcanica che ci getta la vicenda in faccia, alle porte di casa: a Trieste e Gorizia come sulle coste calabro – siciliane. Abbiamo coscienza palpabile che si tratta di un fenomeno epocale ed inarrestabile, che si tratta del futuro che coinvolgerà le generazioni dei nostri figli e nipoti dato che ormai è evidente, anche al più scettico, che il baratro che ci sta davanti prima o poi si connetterà ai cambiamenti climatici ed alle mutazioni ambientali.

In questo quadro di morti collettive – come del resto è naturale che sia nel processo vitale – prosegue necessariamente e quotidianamente anche il fine vita che sovrasta ciascuno degli esseri viventi: uomini, animali, piante poiché tutti siamo chiamati all’ineluttabile percorso.

Richard Janssens, Soppalco, 130 x 116 cm, 1992, Acrilico e olio su tela

Dice ancora Massimo Recalcati: “…L’esperienza della fine comincia sin dall’inizio, si potrebbe dire, senza abusare troppo dei giri di parole. È, infatti, già con il suo primo respiro che la vita comincia a morire. È la nostra condizione di finitudine, è la nostra condizione d’essere mortali”.3

Appare, per questo, in controtendenza, il testo biblico del «Quoèlet», su cui non a caso si è soffermato per una attenta disamina e riflessione il mio amico monaco benedettino a Praglia, don Sandro Carotta⁴, il cui libro invito a leggere per le considerazioni critiche e gli spunti che offre anche a chi non sia credente. Andiamo alla fonte, ovvero a quel che dice il testo biblico: “…Poi, riguardo ai figli dell’uomo, mi sono detto che Dio vuole metterli alla prova e dimostrare che essi di per sé sono bestie. Infatti la sorte degli uomini è quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere ed alla polvere ritorna…”⁴.

Morte cosciente per l’umano – e qui ci vorrebbe una parentesi sul fenomeno dei suicidi⁶, peraltro in crescita nella nostra società ipertecnologica, in modo particolare tra i giovani – e quella che vede la dicotomia tra la finitudine collettiva, per qualsivoglia ragione (guerre o pandemie), e quella individuale, solitaria, in genere segnata da malattie contro le quali, tuttavia, solo il nord del pianeta ha elaborato un fitto processo produttivo di ricerca e produzione di medicinali curativi che prolungano l’agonia, lasciando ancora una volta, anche su questo tema, al sud del pianeta le briciole o l’unica strada della migrazione, là dove il ciclo si riapre e dove la morte fa capolino comunque.

E la filosofia che dice?

Poiché è del tutto evidente che su quest’argomento una qualsiasi “conclusione” risulta impossibile, merita offrire, al paziente lettore giunto sin qui, uno squarcio del più recente dibattito che la filosofia ha provato a porre.

Se per Heiddeger la nostra morte non è da intendersi come “…l’ultima nota che chiuderebbe la melodia dell’esistenza, quanto piuttosto come un imminenza sovrastante…”, Freud concepiva l’esistenza umana come una serie continua di separazioni: dalla vita intrauterina, dal seno materno, dalla presenza della madre, dal proprio nucleo familiare, dalla propria condizione di coppia o di solitudine per scelta… Anche quelle che nel mio primissimo libro⁷, cui oggi riconosco taluni errori ma anche una preveggenza sui fenomeni di dissoluzione dei modi e delle forme del fare politica, che, infatti, si sarebbero puntualmente realizzati una decina d’anni dopo (cosa di cui sono orgoglioso) ed hanno visto riproporsi il percorso delle costanti separazioni.

Mi accorgo, nel tentativo di definire tutte le esperienze aggregative che la specie umana tende a costruire per socializzare, che bisogna riconoscere che anch’esse hanno un loro percorso segnato: nascono, operano, si dissolvono. Ciascuno di noi che ha operato nel sociale ha vissuto sulla propria pelle questo percorso, accumulando, lungo la via, disillusioni cui facevano seguito nuove speranze destinate anch’esse a morire creando altri, progressivi, e diversi disincanti. Tutto si sbriciola e sfugge fra le dita lasciandoci a mani vuote.

Ecco perché, tentando di chiudere il cerchio, ritrovo ancora Recalcati: “…È un bivio che ci fronteggia: per un verso il divenire del tempo impone la sua legge inesorabile. Di nuovo possiamo evocare le parole del «Quoèlet»: veniamo dalla polvere e ad essa siamo destinati a ritornare senza scampo. Ma per un altro verso, come insegna la straordinaria arte di Giorgio Morandi e di Claudio Parmeggiani, è qualcosa che resta nel tempo.

Eccoci al punto: non è necessario essere semplicemente ed ineluttabilmente pessimisti in ragione della presenza della morte, poiché è il tempo, l’oggetto vero su cui bisognerebbe fermare la riflessione, in quanto segno, per quanto labile e fragilissimo, quasi inconsistente, etereo, dell’unica cosa umana che non si lascia ridurre del tutto al nulla.

È lui il fulcro su cui l’agire di ciascuno (e di tutti) dovrebbe essere conformato, poiché se oggi possiamo dire di qualcuno che egli è stato, è per le cose che di lui ci sono pervenute: appunto attraversando il tempo e che egli lascia a chi, dopo di lui, singolarmente o collettivamente, ne raccoglierà il testimone per portarlo in avanti, questa volta sì, entro un percorso la cui fine non è inscritta nel novero dell’ineluttabilità della fine.

Richard Janssens, Un resto – 1, 60 x 50 cm, 2017, acrilico e olio su tela

La caducità, semmai, potrebbe stare nella qualità di quel che si lascia: ma questo è tutt’altro scenario, che implica la libertà di giudizio, il libero arbitrio, le invidie e le bassezze umane.

Questo mio testo s’inscrive proprio in questa logica.

É un sasso lanciato nello stagno per favorire un possibile dibattito che sappia scandagliare, con nuovi approcci, la questione del tempo, incardinandola in un contesto più ampio: l’unico possibile, a mio parere, a meglio definire anche quello della morte.

 

1- Cfr. Werner Fuchs «Le immagini della morte nella società moderna. Sopravvivenze arcaiche e influenze attuali» Torino, Einaudi, 1973.

2- E. Marigliano, “Quando la realtà sveglia ai problemi .

L’ideologia non basta per aiutare a vivere.”. in “Il Momento

Agosto-settembre 1981

3- Cfr. Massimo Recalcati «Quella fine che ci rende così umani. A differenza degli animali la morte è un’esperienza che segna tutta la nostra vita. Ecco perché è importante che sia degna» in «Repubblica» 13/10/2022 pag. 32 – 33.

4- Cfr. Sandro Carotta «Quoèlet. Attualità e provocazione» Milano, Ed. San Paolo, 2022

5- Cfr. «Quoèlet» capitolo “La morte per ogni vivente”, 4 – 20, pag. 1438. Da «La Bibbia di Gerusalemme» Roma, ED. CEI, 2009.

6- Cfr. Maurizio Crosetti «Il tormento di chi resta dopo un dolore infinito. Il memoir di B. Bianchi» in «Repubblica» 6 febbraio 2023 pag. 27.

7- Cfr. Enzo Marigliano «Potere e ragione politica. Primi lineamenti per una critica alle forme organizzate del fare politica» Prefazione di Carlo Bernardini. Pordenone, CIC, 1984.