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Ospitalità e stranieri nel mondo classico

Paolo Venti
Ospitalità e stranieri nel mondo classico

L’ospitalità a volte ti salva la vita, letteralmente, anche se magari l’ospite vero e proprio era stato tuo nonno. Così è capitato al buon Glauco nel V libro dell’Iliade allorché, in procinto di scontrarsi con Diomede, e l’esito dello scontro ahimè era molto a favore del secondo, facendo le presentazioni di rito scopre che un suo avo era stato ospite dell’avo di Diomede. E quindi fra ospiti non ci si combatte, ci si scambia doni per rinnovare il vincolo (e Glauco invero dona parecchio di più di Diomede) ma si passa ad altro scontro.

E’ questo forse il primo episodio in cui l’ospitalità compare con forza nella civiltà occidentale, con tutto il suo potere quasi sacrale che a noi in parte sfugge. Per capire forse occorre immaginare quel mondo, fatto di piccole entità politiche, i piccoli regni micenei nel caso dell’Iliade, le poleis nel caso della Grecia classica: il rapporti fra tali comunità erano fragili, dominava più la guerra che la pace e comunque i diritti faticosamente scritti nelle singole città valevano solo per i cittadini, era sottinteso. E dunque chi per qualche motivo si trovasse a passare, soggiornare fuori dalla propria città, magari per commercio, correva dei rischi seri perché non esisteva alcuna tutela scritta dello straniero. Da qui l’istituto della xenía, ovvero l’ospitalità (xenos è lo straniero, da cui il nostro xenofobo…), con delle declinazioni molto interassanti: in quasi ogni città vi era infatti un próxenos, ovvero una persona che curava gli interessi degli stranieri provenienti da una città specifica, spesso arrivando ad ospitarli per un certo periodo. Insomma a Tebe c’era il próxenos degli Ateniesi, dei Megaresi, degli Spartani, ecc. Lo sappiamo dai numerosissimi decreti di proxenía in cui una polis ringrazia i favori e gli aiuti ricevuto dal cittadino in questione. Una sorta di consolato diffuso, se vogliamo tentare un confronto con la modernità.

Foto di Andrea Frisina. Vasellame Magna Grecia, Museo di Locri

Tale istituto ci conferma la rilevanza del tema in questione. L’ospite di fatto nel mondo greco è sacro, Zeus stesso è protettore degli ospiti nella sua qualità di Zeus Xénios. Nè serve pensare ad una forma di bontà o altruismo: semplicemente conveniva agire così perché era altamente probabile che ciascuno a sua volta si potesse trovare prima o poi nella condizione inversa (significativo in tal senso che sia in greco che in italiano la parola “ospite” indichi sia l’ospitante che l’ospitato, a dire che nell’atto di ospitare si genera una zona di relazioni sospese, neutre, in cui i diritti improvvisamente si uguagliano). Ne deriva una serie di corollari e aneddoti interessanti: chi si macchiava di un delitto in una città, per esempio, era normale si trasferisse in un’altra in una sorta di esilio, diventasse ospite di qualcuno e in tal modo, passato un certo periodo, lavasse la propria colpa. Capitò perfino al dio Apollo che finì ospite di Admeto per nove anni dopo aver ucciso il medico Asclepio.

Che l’ospite fosse sacro lo dimostra la storia di Bellerofonte, colpevole nella sua polis, ospitato da Preto. La moglie di costui, Stenebea, innamoratasi di Bellerofonte ma respinta da questi, lo accusò davanti al marito di averci provato lui. Che fare? Prevale il rispetto dell’ospite e Preto si limita ad allontanare Bellerofonte inviandolo dal proprio suocero (ma con intenzioni non proprio pacifiche). Che l’ospitalità sia connessa alla purificazione lo testimoniano tante storie: da Oreste, ospitato e purificato ad Atene dopo il matricidio, a Eracle cui accade lo stesso dopo l’uccisione di moglie e figli, al caso di Edipo che, rifiutato da tutte le città, trova ospitalità ancora una volta ad Atene dove muore e viene quasi divinizzato. L’ospite insomma entra in una sorta di spazio neutro che fra le altre cose, oltre a garantire la protezione, consente anche di ricominciare da capo la propria vita.

Vasellame Magna Grecia. Museo archeologico Pestum. foto di Renato Cuccaro

Fra tutte le altre infinite cose che ruotano attorno a questo tema in Grecia varrà la pena citare almeno il symbolon, il simbolo, ovvero un qualcosa, un oggetto che ha la finalità di essere rimesso insieme (syn-bállein, appunto). In sostanza una volta stabilito un rapporto di ospitalità si prendeva un coccio, un piatto, una tavoletta e la si rompeva in due parti, una per l’ospitante e una per l’ospitato. Nei tempi futuri, perfino nelle generazioni future, sarebbe stato sufficiente riaccostare i due pezzi per confermare il legame indissolubile.

Uccidere o far violenza a un ospite è rarissimo e degno della massima condanna: Tantalo offende gli dei ospiti a un banchetto portando in tavola le carni del proprio figlio (?), mentre Atreo ospita il proprio fratello Tieste e gli imbandisce le carni dei suoi figli. Ne derivano le maledizioni peggiori, ovviamente. Sul piano mitico proprio una violazione di ospitalità è all’origine della guerra di Troia: Paride che si lascia sedurre da Elena e offende Menelao che lo aveva accolto nella sua casa come ospite.

Sul piano storico le cose saranno andate un po’ diversamente e ci sono numerosi casi di finte ospitalità finite in massacri: dai generali greci uccisi da Tissaferne di cui ci parla Senofonte (ma i persiani sono barbari e il caso non fa testo…) alla fine di Pompeo, ospitato da Tolomeo XVI in Egitto e poi ucciso per far piacere a Cesare. Il quale non parve gradire molto visto che pianse sulla testa del suo nemico che gli fu recapitata come macabro omaggio. E non a caso Dante chiamerà proprio Tolomea la sezione del nono cerchio dove si puniscono i traditori degli ospiti.

Vasellame Magna Grecia Museo archeologico Capua. foto di Renato Cuccaro

Su questo versante, storico piuttosto che mitico, si sviluppa nel mondo latino l’indagine di studiosi come Bettini che osservano la comune radice di hospes e hostis, di ospite e nemico. L’abbraccio stesso, segno di affetto e ospitalità, assomiglia pericolosamente ad una presa di lotta, a un’aggressione, e l’ospitalità mantiene nel mondo romano le tracce di una differenza piuttosto che quelle di una parità di ruolo. Dal mondo latino non ci vengono esempi di ospitalità così numerosi e significativi, mentre pare dominare l’istituto diverso e asimmetrico della clientela. L’ospitalità viene invece sottoposta a un sistema normativo che attiene più al mondo della politica e della giurisprudenza che a quello del sacro: viene creata la cosiddetta tessera hospitalis, una sorta di lasciapassare legalmente riconosciuto che vincola ospitante e ospitato, nei casi per esempio di ambascerie, ecc. L’ospitalità scivola in altri due ambiti interessanti: da un lato l’amicizia, ovvero il momento in cui qualcuno smette di essere ospite e viene di fatto integrato nella comunità, diventa amico.

E’ il caso di Polibio che, entrato a Roma come ostaggio, diventa sotto gli Scipioni uno dei massimi storici romani passando proprio attraverso un rapporto di amicizia personale con Scipione l’Emiliano. Sull’altro versante l’ospitalità diventa un vero e proprio fatto politico, collettivo, ovvero implica l’accoglimento al di qua dei confini di intere popolazioni “ospiti”, sulla base di accordi formali (foederati). Anche in questo caso, che si ripete pi volte nella storia romana, l’inclusione divenga un primo passaggio per l’integrazione completa e magari, come avverrà nel 212 d. C.con la Constitutio Antoniniana, la concessione della cittadinanza romana. Famoso resta in tal senso il discorso dell’imperatore Claudio, riportato da Tacito e da una’iscrizione trovata a Lione, in cui si propone in modo esplicito questa strada dell’inclusione progressiva come segreto della potenza stessa di Roma.

foto di Antonio Frisina. Tempio di Apollo, Delfi, 1999

L’ospite insomma, nell’ottica romana tesa ad inglobare piuttosto che a mantenere le differenze, è un primo passaggio che implica un processo di progressiva inclusione. Anche qui la leggenda aiuta visto che proprio agli esordi della storia di Roma si colloca un episodio di ospitalità brutalmente violata per ragioni di opportunità politica ma che porterà ad uno sviluppo positivo per la città: il ratto delle Sabine avvenuto proprio in occasione di un momento di “ospitalità pubblica”.

Singolare parallelo con il ratto di Elena, che spiega con il solito linguaggio fatto di mito e leggenda tipico degli antichi, molte differenze profonde e suggerisce molte riflessioni di grande attualità.