Blognotes 08
Blognotes 13
numero 13

Il tema del numero è "IL DOPPIO"

Articolo presente in

Rotta Balcanica. La disperata avventura dei profughi verso l’Europa

Vittorio Giustina
Rotta Balcanica. La disperata avventura dei profughi verso l’Europa

Il cammino dei profughi lungo la cosiddetta rotta balcanica, nella sua parte finale s’incunea nell’imbuto bosniaco che, a nord, incontra il confine croato. Una rotta ed un approdo che attraversano una realtà che conserva ancora chiara memoria delle drammatiche vicende della sua storia recente. La Federazione dei popoli slavi del sud, sorta alla fine della seconda guerra mondiale, con la sua rovinosa dissoluzione, ha prodotto la nascita di più piccoli stati sulla base delle storiche identità etniche, religiose e linguistiche prima aggregate nella Jugoslavia di Tito. Un esito che si compie al termine di una devastante guerra civile non escluse sanguinose politiche di pulizia etnica delle minoranze presenti nei nuovi confini che venivano a delinearsi. Tra questi, nata con il referendum popolare del 1992, stretta nella cintura avvolgente di Croazia e Serbia, la Repubblica federale di Bosnia ed Erzegovina, con i suoi attuali 3,3 milioni di abitanti, ha avuto una storia particolarmente tragica. I popoli che la costituivano: bosgnacchi, serbo-bosniaci e croato-bosniaci, corrispondenti a tre diverse appartenenze religiose, musulmana, ortodossa, cattolica, hanno vissuto un feroce conflitto tra il 1992 e il 1995, ricordato oggi per il feroce assedio di Sarajevo, il massacro di Srebrenica, la distruzione del ponte di Mostar. L’odierna Bosnia-Erzegovina è un mondo sopravvissuto a quelle tragiche vicende nella forma artificiosa di una fragile realtà istituzionale nata col forcipe di un accordo internazionale per la necessità inderogabile di porre fine ai massacri ma senza poter miracolosamente cancellare le ferite della guerra civile e degli odii in cui era precipitata. In questo contesto la rotta balcanica è terra di incontro di un mondo ferito e di migranti che conoscono altrettanto bene il dramma dei conflitti etnici e religiosi e la miseria, l’oppressione e la violenza che ne segue.

La cosiddetta rotta balcanica si evidenzia a metà dello scorso decennio con crescenti arrivi di migliaia di persone, prevalentemente provenienti da Siria, Iraq, Pakistan, Bangladesh. Afghanistan, che risalgono verso nord dalla Grecia e la Macedonia. Un corridoio di transito che incontra infine la Croazia, porta d’ingresso alla Comunità Europa, da cui raggiungere poi Italia, Belgio, Spagna, Austria e Germania. Un esito che conosce subito il saluto respingente di una Europa matrigna con i manganelli e le violenze delle guardie di frontiera croate.

Boschi nei pressi di Velika Klanduša novembre 2021. Foto di Ospiti in Arrivo

In poco tempo la rotta balcanica si è affiancata rapidamente per importanza a quella degli afflussi di profughi nel mediterraneo: dall’inferno dei gommoni ad un cammino che dura mesi o anni in condizioni di assoluta precarietà. Con la differenza che se il mare Mediterraneo è una scena aperta e visibile di barconi che lo attraversano, i loro naufragi, le vicende di navi ONG impedite a lungo prima dello sbarco in un porto che le accolga, nella rotta balcanica tutto si svolge in una lunga, più nascosta e tortuosa catena Un cammino erratico con punti d’appoggio in campi profughi provvisori costituiti dalle autorità di paesi obbligati a fronteggiare una ineludibile emergenza. Lucrando dall’Europa cospicui finanziamenti per costruirli, quasi sempre, in termini inadeguati e il contorno armato di guardiani e polizie. Pochi servizi igienici, latrine all’aperto, spesso mancanti d’acqua corrente. Il tutto avvolto in un clima di aperta ostilità, frutto di politiche avare di accoglienza in un orizzonte miope di puro contenimento della “invasione” straniera se non di aperto rifiuto. Certo, dove ai margini vi sono anche risorse attive di solidarietà nella gente via via incontrata e delle associazioni umanitarie. Ma insieme, l’incendio doloso del campo di Lipa, i cani e i manganelli delle guardie di frontiera turche, greche, croate. Una logica che non è quella di accompagnare l’esodo di profughi in fuga con corridoi umanitari e tappe d’arrivo, ma che lo trasforma, in troppi casi, in una disperata odissea umana che ripete il senso di una storia che sembra condannata a procedere sempre con un prezzo esorbitante di sofferenza, prevaricazioni e violenze.

Nella rotta balcanica si calcola che oggi circa 130 mila persone si trovano impantanate in campi profughi distribuiti tra Grecia, Nord Macedonia, Albania, Serbia, Bosnia Erzegovina.

Le principali stazioni bosniache di quel calvario sono a sud (Salakovac, Ušivak, Blažuj) ma soprattutto nel cantone di Una-Sana all’estremo nord della Bosnia (Velika Kladuša, Borići, Bihać, Lipa). E’ in questi ultimi che, con più evidenza, la Bosnia si configura come un collo di bottiglia che ostacola o impedisce il transito verso i paesi ricchi dell’Europa. Su quell’arcigno confine, senza distinzioni fra adulti, minorenni, donne e bambini, la situazione è la stessa: poliziotti armati, barriere, fili spinati che costringono i profughi in sacche di sopravvivenza o li ricacciano indietro al punto di partenza in campi o accampamenti occasionali. Fino agli episodi più gravi di pestaggi, soldi e cellulari sequestrati o distrutti, le scarpe tolte dai piedi. In questa situazione, Velika Kladuša, il suo campo profughi, in una città di 40mila abitanti, naturalmente ai margini della città, è diventata famosa per la parola “game” (gioco, scommessa) che è il modo con cui i migranti della rotta balcanica, arrivati in quel punto cruciale di confine con la Croazia, esprimono la ferma determinazione di tentare e ritentare la sfida dell’aggiramento di una violenza respingente che vorrebbe impedire loro l’avventura verso l’Europa. Una avventura che qualche volta riesce, così che un flusso anche significativo riesce a filtrare in Croazia, quindi la Slovenia per arrivare in Italia o più a nord in Austria e Germania. A Velika Kladuša agiscono naturalmente anche associazioni umanitarie di appartenenze laiche e cristiane tra cui quella udinese di Ospiti in arrivo”. Gigi Zucchi in questa rivista ci consegna un reportage esemplare di quella situazione. Anche questi volontari sono “europei” nel volto generoso e solidale di quell’altra Europa che sostiene e alimenta le speranze dei profughi della rotta balcanica.

Lo sbocco italiano e verso il nord europeo attraverso la rotta balcanica e la nostra regione nel 2021 si valuta in circa 10mila persone. Per fronteggiarlo da parte dei governi di confine è stato inventato anche un arbitrario meccanismo di respingimento, dove i profughi, dopo esser stati intercettati con il pattugliamento sul confine da poliziotti italiani e sloveni, vengono respinti all’indietro, all’inizio del game: dall’Italia, alla Slovenia, alla Croazia, alla Bosnia. Una prassi che vìola tutte le normative europee sul diritto d’asilo come afferma la sentenza del Tribunale di Roma con l’ordinanza del 18 gennaio 2021. Questa sentenza accoglie il ricorso di un richiedente asilo pakistano arrivato a Trieste, respinto dalle autorità italiane in Slovenia, e da queste in Croazia per ritrovarsi infine ricacciato in Bosnia. Nell’ordinanza del magistrato italiano si legge che ai profughi “erano stati fatti firmare alcuni documenti in italiano, gli erano stati sequestrati i telefoni ed erano stati ammanettati. Poi sono stati caricati su un furgone e portati in una zona collinare e intimati, sotto la minaccia di bastoni, di correre dritti davanti a loro, dando il tempo della conta fino a 5. Dopo circa un chilometro erano stati fermati dagli spari della polizia slovena che li aveva arrestati e caricati su un furgone”. Con questa procedura nel 2020 sono state respinte illegalmente in Slovenia 1301 persone. Eppure, Pierpaolo Roberti, assessore leghista con delega per la sicurezza e le politiche comunitarie nel governo della nostra regione, in audizione alla Commissione Schengen della Camera dei deputati, il 21 ottobre scorso, dopo aver parlato di un flusso di profughi che riescono a sfuggire ai controlli per le caratteristiche geografiche e morfologiche della regione lungo il confine, ha difeso le riammissioni informali in Slovenia come “un forte deterrente” contro l’immigrazione. L’assessore in quella sede ha poi rilanciato l’idea di un ‘muro elettronico di videosorveglianza” tra l’Italia e la Slovenia per impedire il transito già sul confine dell’Ue.

Questa piccola cronaca è solo uno sguardo ai margini della vicenda che sta trasformando l’Italia e l’Europa in cui viviamo. Di fronte a tutto questo e per ricordare ancora lo scandalo che si mostra a cielo aperto nel Mediterraneo, il governo della Comunità europea ci appare, quanto più è alta la nostra indignazione e la nostra legittima impazienza, un governo fragile, troppe volte spettatore timido o inerte di fronte a ciò che accade nel suo continente. Una questione che ci obbliga a una riflessione più approfondita.

L’Europa, attore irrinunciabile, nella sua autorità, si confronta con poteri che in materia di immigrazione sono ancora saldamente nelle mani dei 27 parlamenti nazionali dei Paesi che la costituiscono. In quelle sedi sono rappresentate consistenti forze sovraniste, recalcitranti e ostili a un più dignitoso disegno europeo. Bruxelles è usata molte volte come bersaglio di comodo e scaricabarile di volontà timide, contrarie o inette dei parlamenti nazionali. Si pensi soltanto alla vicenda della legge dello ius soli decisiva per l’affermazione del diritto di cittadinanza affossato al Senato nel dicembre dello scorso anno. Una promessa negata e un’occasione persa per rendere più coesa la nostra società di 800.000 persone straniere pienamente integrate nel nostro Paese che attendevano con fiducia d’essere riconosciuti cittadini italiani.

Il problema, come si vede, non può limitarsi al ruolo e alle relazioni fra Parlamento europeo e parlamenti nazionali, nella dialettica fra forze sovraniste e quelle convintamente europeiste.

Il confronto politico a quel livello non è una partita separata che si svolge nell’altrove della “casta dei politici” o dei “burocrati di Bruxelles” secondo l’anatema populista. Sul Parlamento europeo e sui parlamenti nazionali agiscono correnti d’opinione, positive o oppositive, dei cittadini che poi determinano col loro voto la fisionomia di quegli stessi parlamenti. Si tratta di una battaglia politica e culturale a tutto campo dove continua la contrapposizione fra l’idea di un’Europa solidale e inclusiva opposta ad un’altra Europa rinserrata nella sua fortezza attorno agli interessi e agli egoismi di ogni singola nazione, indifferente e ostile, cieca all’evidenza che nessuna modalità difensiva di puro contenimento potrà essere un’alternativa all’urgenza di una politica sull’immigrazione lungimirante e coordinata fra gli stati interessati.

Insomma, nel cammino dell’ Unità Europea vi sono molti più muri di quelli che vediamo a occhio nudo. Se vi sono quelli visibili e scandalosi costruiti o invocati dai governi ungherese e polacco, vi sono anche altri innumerevoli muri invisibili costruiti dalle diffuse resistenze che toccano comunità, piccole e grandi, e cittadini. Non vediamo anche noi nel cortile di casa della nostra Regione il rifiuto e le diffidenze che impediscono accoglienza ed integrazione quando viene preferita la soluzione sbrigativa delle grandi caserme abbandonate per ammassare i profughi intercettati nelle nostre strade giustificandola per ragioni di sicurezza e, oggi, anche sanitarie a causa del Covid? O le resistenze di alcune amministrazioni comunali e di cittadini anche in piccole comunità del nostro Friuli ad accogliere gruppi esigui di un mondo che pure dovrebbe avere un ricordo memorabile della sua storia passata di migrazioni?

Non aiuta naturalmente una parte della magistratura che interpreta le regole con rigore eccessivo di fronte alle situazioni concrete che si svolgono nella carne viva delle situazioni e delle persone. Un caso esemplare è stato quello del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, dove nei fatti è stato condannato l’esempio di una politica d’accoglienza dei migranti dove l’irregolarità di qualche carta bollata o di qualche firma non erano certo espedienti truffaldini o per un arricchimento personale. Minori, ma ugualmente significative, le vicende recentissime nella nostra regione a Pordenone e Trieste dove alcuni volontari di associazioni umanitarie, Rete Solidale e Linea d’Ombra, legata alla rete Dasi, dedicate alla cura di profughi incontrati nella loro condizione di evidente indigenza e precarietà, si son trovati con comunicazioni giudiziarie di cui rispondere nelle aule di un tribunale. Fortunatamente queste vicende si sono concluse con piena assoluzione. Sullo sfondo è il reato di aver favorito l’immigrazione clandestina. Ossessione di molti e delitto inammissibile per il quieto vivere delle comunità indigene dove tribunali e polizie sembrano ignorare la differenza fra gesti di indispensabile solidarietà umana e affari criminali di passeur e scafisti che speculano sui processi migratori.

Squat nei pressi di Velika Kladuša novembre 2021. Foto di Ospiti in Arrivo

Ma un intralcio non meno grave è rappresentato da molti uffici pubblici a cui è affidata la gestione di di procedure burocratiche essenziali per la normalizzazione della presenza degli stranieri in Italia. Come i permessi di soggiorno, l’accoglimento di richieste d’asilo, il riconoscimento della cittadinanza italiana, le pratiche per l’emersione di forme di lavoro irregolari. Di norma un calvario di tempi lunghissimi, quando non di intralcio deliberato, per la conclusione di pratiche vitali per i richiedenti. Una burocrazia farraginosa e ingessata che ha come effetto il mantenimento di aree estese di marginalità e precarizzazione, quando non di persone costrette alla clandestinità a cui vengono ricacciate.

Tutto in conclusione ritorna ad un problema cruciale che riguarda ogni filo di quel tessuto che lega parlamenti, amministrazioni locali, opinione pubblica, cittadini e istituzioni che governano le nostre società in Occidente. Il dilemma è quanta vera sostanza e concretezza possiamo dare ai principi di solidarietà e giustizia della grande tradizione cristiana e laica che proclamiamo in ogni nostro discorso.