Neppure il cristianesimo seppe elaborare un chiaro concetto del tempo. Eppure, oggi, la quotidianità di tutto il globo è plasmata sul tempo dei cristiani tanto che, nelle forme statuali, anche chi adotta calendari diversi (cinesi, ebrei ed islamici) sigla e firma gli Atti e documenti internazionalmente riconosciuti datandoli sui 2023 anni decisi, dall’VIII secolo, dalla cultura cristiano – cattolica.
UN RAPIDO CENNO AL PASSATO DELLA LATINITÀ
A Roma il calendario è diviso in 12 mesi di 30 giorni che iniziano il 1° marzo. Il mese è diviso in tre parti, diseguali e variabili: le none (da 4 a 6 giorni), le idi (8 giorni) e le calende (15 giorni). Seguono, poi, senza interruzione, serie regolari di “nundine” designate sul calendario dalle prime otto lettere dell’alfabeto. L’ultimo giorno di ciascuna nundina è festivo, riservato alle celebrazioni religiose, azioni giudiziarie ed indizione dei comizi. Il giorno è diviso il 12 ore giornaliere ed altrettante notturne. Ogni anno il pontefice massimo aggiunge un mese intercalare e ne fissa la data per recuperare il ritardo dell’anno solare; inoltre stabilisce i giorni “nefasti, definiti “tregua degli dei” in cui è proibito lavorare e recarsi in tribunale.
Fino alla riforma di Cesare (45 a.C.), i giorni consacrati agli dei erano 109, di cui 45 feste pubbliche ed 11 semifestive. Dopo il crollo della Repubblica, Cesare impone una modifica nelle feste e nei mesi: fissa un giorno raddoppiato ogni 4 anni e l’inizio dell’anno è spostato al 1° gennaio. Il cristianesimo ingloberà parti di tale assetto, rivoluzionandone tuttavia la logica più profonda attraverso una formidabile opera di sostituzione delle precedenti forme cultuali con i capisaldi del proprio credo, realizzando una delle più grandi forme di omologazione per l’intero mondo allora conosciuto.
ACCULTURAZIONE ED INCULTURAZIONE
Dobbiamo la mitologia dell’invasione alle allarmate descrizioni di Ammiano Marcellino¹ , uno dei maggiori storici del IV secolo. In realtà già dal I secolo all’interno dell’esercito romano si erano formate intere legioni di mercenari appartenenti alle più disparate etnie e la maggior parte, nell’arco di una o due generazioni, s’integravano con gli autoctoni romano-latini, stanziandosi, con le loro famiglie, entro i confini imperiali.
Non d’“invasione” si deve parlare quanto, piuttosto, d’un processo di trasferimento di settori di popolazioni che da est si dirigevano verso ovest: molte relazioni dei comandi romani posti nelle aree confinarie (si pensi a Zuglio – Julium Carnicum) descrivono, unanimemente, gigantesche colonne di donne, uomini, bambini, carriaggi che si spostavano e lambivano i confini imperiali senza operare incursioni militari ma, anzi, tentando approcci pacifici, relazioni commerciali o scambi di varia natura; si stipularono accordi reciproci che consentirono a ben definite quantità nomadiche di attraversare il confine² e ad altre, perché troppo numerose per essere accolte, di fermarsi ai margini degli stanziamenti romani firmando patti di reciproco riconoscimento e non aggressione.
La storiografia tedesca del XIX secolo adottò il termine “Völkerwanderung”, ovvero trasferimento di popoli; medievalisti della mia generazione, invece, sono giunti alla convinzione che il numero effettivo di migranti non fosse poi così poderoso per cui, più cautamente – forse perché abbiamo sotto gli occhi i fenomeni migratori attuali – utilizziamo il termine “Massenmigration”. Si stima che il popolo-esercito degli Goti/Ostrogoti, il primo che attraversò il limes nel 488 con l’idea di fermarsi nelle terre romanizzate, fosse composto da circa 200.000 persone, di cui effettivamente in grado di combattere tra i 10 ed i 30.000 uomini³ .
Nei decenni di costante e lenta immigrazione, convivenza pacifica o bellica, questo complesso e variegato mondo di nuove etnie nelle terre di quello che fu la pars occidens dell’Impero, senza volerlo produsse un fenomeno oggetto di studi: l’acculturazione e l’inculturazione fra nuclei di popoli che per la prima volta avevano occasione di doversi reciprocamente confrontare.
Ciò avvenne attraverso fenomeni complessi: la necessità di imparare i reciproci linguaggi; il crescente numero di casi di matrimoni misti; la riflessione appunto sulla questione del calcolo del tempo sia nell’arco dell’anno che in quello, via via più ristretto, dei mesi, giorni ed ore.
“FRECCE DEL TEMPO” E CONTRADDIZIONI DEL CRISTIANESIMO
Come ogni nuovo potere la Chiesa vuole iniziare il controllo del tempo designando un “punto zero” del proprio calendario, da sostituire a tutti i precedenti. Operazione, questa, duplicemente complessa poiché si trattava di modificare sia il tradizionale calcolo romano sia – cosa ben più complessa – quella delle singole etnie con le quali l’attività missionaria entrava in contatto.
È, quest’ultima, una materia trattata anche dal sottoscritto in più occasioni e tale da non poter essere sviluppata senza esaminare caso per caso, il che è impossibile in questa sede. Più ragionevole esaminare il comportamento della Chiesa verso la romanità poiché, dopo gli Editti di Costantino (313 d.C.) e Teodosio (381 d.C.) sembra sia stato un monaco, Dionigi il Piccolo, a proporre, nel 532 d.C., di contare gli anni dalla nascita di Cristo, il quale, a suo dire, sarebbe nato il 25 dicembre del 753 dalla fondazione di Roma, nel 4° anno della 124^ olimpiade. La Chiesa, prima di far sua l’idea accolse il presupposto dell’inizio dell’anno ogni 1° gennaio, solo dopo il concilio di Nicea si affrontò il resto del problema. Nella realtà quotidiana il tempo contadino restava identico e l’accettazione della nuova suddivisione ardua e lunghissima.
La svolta avviene ad opera di San Benedetto da Norcia e del Monachesimo, per i quali il fulcro della vita è la preghiera, ragion per cui il tempo giornaliero è frazionato non in 24 ore ma in 7 poiché, dice la «Regola»: “…Il profeta ha detto: sette volte al giorno ti ho dato lode. Noi realizziamo questo sacro numero di sette se compiamo i doveri del nostro servizio all’ora di Mattutino, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta….”⁴
L’altra grande novità è composta dall’introduzione delle campane che suonano a distesa ogni volta che i confratelli sono chiamati alla preghiera. Il fatto è che il suono delle campane delle centinaia di Monasteri che erano sorti in tutt’Europa si propagava nelle campagne e venne introiettato dai rustici come un nuovo e diverso calcolo del tempo quotidiano che, creando confusione, si sovrapponeva a quello, naturale e noto da secoli, della vita agreste.
Non solo: anche l’anno viene diviso in quattro periodi: da Pasqua a Pentecose; da Pentecoste a Settembre; da Settembre a Quaresima e dall’inizio della Quaresima fino a Pasqua. I mesi, suddivisi in settimane di sette giorni, mutuando dalla tradizione ebraica, ma sostituendo il giorno di festa dedicato a Dio dal sabato alla domenica. Dall’VIII secolo in poi, grazie a Decreti carolingi, tutto verrà omologato, reso obbligatorio, e così, in un mondo completamente dominato dai tempi dell’agricoltura, dai Monasteri benedettini giungerà ovunque la voce di un tempo diverso che si sovrappone ma non elimina l’altro che è pur sempre funzionale alla produzione agricola o, nelle città, al rinascere delle attività commerciali ed artigianali. Per gli ebrei, che praticano l’usura, peserà per secoli l’infamante accusa di essere “venditori del tempo” e, quindi, non solo deicidi, ma anche profittatori d’un dono di Dio.
Siamo così giunti al punto della secolare contraddizione fra il calcolo del tempo cristiano e la società circostante: da un lato il calendario naturale dominato dalle stagioni, che segue l’andamento di una freccia lineare, stagione dopo stagione, che punta verso l’indefinito futuro della fine del percorso terreno dell’uomo⁵ ; dall’altro il ripetersi dentro questo tempo lineare di un altro tempo: circolare e ripetitivo e che, in più, promette un futuro di rinascita e resurrezione dei corpi oltre che delle anime. Di anno in anno ricompaiono Natale, Pasqua, Pentecoste, Quaresima e, nel corso dei secoli, quanto più si affermerà il potere (anche temporale) della Chiesa, altre ricorrenze avranno lo scopo d’inglobare miti e riti ancestrali provenienti dal paganesimo: l’Epifania con i falò; Carnevale con le maschere; le celebrazioni di singoli martiri, Santi o Beati al posto delle precedenti divinità⁶.
Una contraddizione fra i due tempi cristiani che troverà una sua conclusione solo con l’introduzione degli strumenti di calcolo meccanici che consentirà di far convivere il tempo della Chiesa con quello dell’economia .
1- Cfr. Ammiano Marcellino «Le storie» trad.it. di F. Ambrosoli. Milano, Per Antonio Fontana, 1890, pagg. 11 – 12.
2- Cfr. Alessandro Barbero «Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’Impero romano» Roma – Bari, Laterza, 2006 (1^ ed). Walter Pohl «Le origini etniche dell’Europa. Barbari e romani tra antichità e medioevo» Roma. Viella, 2001 (2^ ed).
3- Cfr. Ermanno Orlando «Medioevo migratorio» Milano. Il Mulino, 2022.
4- Cfr. San Benedetto Abate «La Regola», Praglia, Ed. Scritti Monastici, 1998. Pag. 119. Il riferimento va ai Salmi 118, 62 e 164.
5- Cfr. AA.VV. «Dimensioni del tempo» a cura di Umberto Curi. Milano, Franco Angeli Ed., 1987. Con part Rif. Massimo Cacciari
6- Cfr. Jacques Le Goff «Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel medioevo» Torino, Einaudi, 1976. AA.VV. «L’uomo medievale» Bari – Roma, Laterza, 1993. Con part. Rif. a Giovanni Cherubini «Il contadino e il lavoro nei campi» pagg. 127 – 154. Giovanni Miccoli «I monaci» pagg. 41 – 80. Armando Sapori «Il mercante italiano nel medioevo» Milano, Jaca Book, 1983.