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Al cinema il tempo è diegetico

Andrea Crozzoli
Al cinema il tempo è diegetico

«Tempo… Tempo… Cos’è il tempo? In Svizzera si fabbrica, in Francia è fermo, in Italia lo sprecano, in America dicono che è denaro e in India non esiste. Sai che ti dico? Per me il tempo è una truffa.» dichiara Peter Lorre in Il tesoro dell’Africa (1953) di John Huston. Truffa, certo, nel senso che al cinema il tempo viene frantumato, sconvolto, rovesciato, anticipato o posticipato a piacimento, grazie a quel formidabile strumento chiamato montaggio.

Infatti il tempo, con il montaggio, viene manipolato, la durata di una scena può essere prolungata con inquadrature di dettagli o controcampi per mostrare lo spazio e l’ambiente; oppure col montaggio “alternato” in cui si narrano due vicende nello stesso tempo con due inquadrature diverse.

Ma il tempo nel cinema si può manipolare anche con dei salti temporali all’indietro, chiamati flashback, o in avanti, flashforward che anticipano qualcosa che accadrà.

Con l’ellissi, invece, nel cinema si può condensare in pochi secondi un largo arco temporale. Kubrick ha fornito nel capolavoro 2001 Odissea nello spazio (1968) l’ellissi più lunga della storia del cinema, trasformando l’osso, lanciato come un’arma in aria dalla scimmia, in un’astronave.

Non vogliamo qui, però, essere certamente esaustivi sull’argomento che richiederebbe, almeno, diversi tomi oltre ad un doveroso linguaggio accademico. Cerchiamo semplicemente di segnalare alcune piccole suggestioni sul tema, per stimolare eventuali approfondimenti.

Ci sono, dunque, autori che nel cinema hanno costruito la loro fama, il loro percorso artistico, giocando con il tempo. Uno per tutti è Christopher Nolan che, nei suoi film, destruttura e plasma il concetto di tempo, fino a farlo diventare diegetico, tanto da impattare profondamente sul tessuto narrativo. La non linearità temporale è il fil rouge che unisce tutta la sua filmografia, il tempo come un qualcosa di instabile, di frangibile che può essere ricombinato secondo logiche sempre nuove. Addirittura in Memento (2000) il flusso temporale è costruito all’incontrario, ciò che accade sullo schermo è il frutto di ciò che vedremo dopo per cui lo spettatore deve memorizzare quello che accade per comprendere la scena seguente. Se non lo ricorda subisce lo stesso disagio del protagonista sullo schermo che soffre di amnesia lacunare, ovvero perdita della memoria a breve. La destrutturazione del tempo nel cinema di Nolan si è fatta, di film in film, più accentuata come in Inception (2010) in cui il regista crea diversi spazi del tempo, circolari e concentrici, dove i personaggi si muovono e agiscono. In Interstellar (2014) attinge, addirittura, al pensiero teorico di Einstein, per cui il tempo viene vissuto dai personaggi a seconda della loro posizione nel cosmo, nell’ottica di una temporalità simultanea, relativistica, con microcosmi onirici paralleli. Fino a portare con Tenet (2020) – titolo non a caso palindromo – il processo di destrutturazione e ricombinazione della temporalità in un universo narrativo in grado di manipolare e modificare se stesso e i principi fisici. Uno spiazzamento, praticamente, totale per lo spettatore maturo che conduce direttamente nel mondo del multiverso e di Everything Everywhere all at Once (2022) scritto e diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert sotto lo pseudonimo di The Daniels; opera premiatissima agli ultimi Oscar con ben sette statuette. Un film, quello dei The Daniels, folle, bizzarro, colorato, ricco di infinite citazioni, con la protagonista, apparentemente normale, che scopre di essere solo una versione di sé all’interno in una vasta rete di universi paralleli in cui tutto può accadere e nulla ha veramente importanza. Questa esplosiva miscela ha fatto scrivere a Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera: “il film ha affascinato il pubblico più giovane, abituato a ragionare con la logica – non certo cartesiana – dei videogiochi e desideroso di provare quello che sembra essere «un viaggio sotto acido»”.

Anche Quentin Tarantino ha segnato un prima e un dopo con il suo osannato Pulp Fiction (1994) che, come altre opere tarantiniane, non segue una narrazione lineare ma una struttura non sequenziale e circolare, con largo uso dei flashback. Nel film l’intreccio di differenti storie si intersecano in uno o più punti. Modello narrativo di storie multiple adottato con successo in seguito anche dal regista messicano Alejandro Gonzales Iñárritu in Amore Perros (2000), 21 grammi (2003) e Babel (2006). Ma i prodromi di questo tipo di narrazione sono rintracciabili nei maestri della Nouvelle Vague, come Band à part (1964) di Jean-Luc Godard, evidente riferimento nella scena della gara di twist in Pulp Fiction. Per la sua destrutturazione temporale Tarantino, invece, ha pescato a piene mani a Stanley Kubrick e il suo Rapina a mano armata (1957), rivelando così tutto il suo abbecedario autoriale. Nel gangster movie di Kubrick la parte profondamente innovativa è, infatti, l’uso del montaggio, la struttura del film, una specie di puzzle, un gioco di combinazioni perfette, senza incongruenze grazie all’uso del flashback sincronico, ovvero ritorna sugli stessi avvenimenti più volte, a seconda del personaggio che deve descrivere.

Fino ad allora il cinema aveva usato la tecnica del flashback per inserire nella narrazione corrente un episodio passato. Con il flashback sincronico lo spettatore rivive più volte una stessa scena osservando azioni che si svolgono in contemporanea. Proprio a proposito del montaggio Stanley Kubrick ebbe a dire: «Credo di amare soprattutto il montaggio. È la cosa più vicina all’idea di un ‘luogo’ in cui fare del lavoro creativoTutto quanto precede il montaggio è semplicemente un modo di produrre una pellicola da montare.».

Anche il popolare genere del western classico si è confrontato e cimentato con il tempo, sperimentando in Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann una perfetta coincidenza tra tempo dei fatti e tempo della narrazione, senza applicare, quindi, la solita condensazione del tempo della narrazione attraverso il “taglia e cuci”. Lo scorrere dei minuti nel film determina una suspense che cresce esponenzialmente all’avvicinarsi del mezzogiorno, quel mezzogiorno di fuoco come “tempo scolpito” al servizio della narrazione.

Altro grande maestro nel manipolare il tempo cinematografico è stato Alfred Hitchcock, dove nelle sue opere la suspense non era tanto delegata alla trama o alla recitazione degli attori quanto alla sapiente e raffinata calibrazione del filmico. In Notorius (1946) il sapere del pubblico e la sua consapevolezza del pericolo sono maggiori di quella dei personaggi, tanto che nella scena della bottiglia che cade, inquadrata da più punti di vista, ad ogni cambio di inquadratura la bottiglia è leggermente indietro e questo allunga il tempo della caduta nella proiezione a velocità normale. Prolungamento del tempo di caduta che dilata in maniera analoga la suspence dello spettatore.

Ma la sequenza più studiata nella filmografia di Alfred Hitchcock è quella in Psycho (1960) della doccia, durante la quale Norman Bates uccide a coltellate la povera Marion Crane (Janet Leight). Una sequenza di quasi un minuto, costata 7 giorni di riprese, con quasi 70 inquadrature e 52 tagli di montaggio. Prima di Psycho il bagno era considerato un luogo sacro, puro e candido; invadere quel luogo con un violento delitto era, dunque, una cosa forte e sovversiva, un dato rivoluzionario per l’epoca. Ecco perché Hitchcock, oltre ad essere studiato, amato e conosciuto da uno sciame di contemporanei, ha continuato negli anni ad ispirare registi della New Hollywood come Arthur Penn che in Gangster Story (1968), nella magnifica sequenza finale della morte di Clyde Barrow e Bonnie Parker, attraverso un sapiente gioco di montaggio con inquadrature che prolungano i tempi di caduta a terra sotto i colpi di proiettile, riesce a comunicare, in pochi secondi, più di mille emozioni. Ma sulla manipolazione del tempo nel cinema si potrebbe continuare con altri infiniti esempi, fino a risalire a David Wark Griffith e alla nascita del cinema stesso. Praticamente quasi ogni film ha dovuto confrontarsi con il tempo e le sue diverse forme. E se il cinema è arte, l’arte del cinema è il montaggio (ovvero il tempo). Passo e (soc)chiudo!