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I love zombie

Andrea Crozzoli
I love zombie

Un regista urla all’attrice implorandole una verità nella recitazione che lei però non riesce a dare. Bisogna girare un film di mezz’ora tutto di seguito, con due/tre cineprese e una cabina di regia in soffitta che monta il film in diretta. Come da impegni presi il film deve essere veloce, economico e dignitoso. Questo chiede la produttrice giapponese sbarcata a Parigi. Ma una maledizione trasforma il film sui zombie in uno zombie reality dove la troupe cinematografica impegnata nelle disastrose riprese si trova realmente attaccata dai morti viventi in puro stile horror-pulp e pop, con colori saturi e vivido clima da B movie, anzi Z movie. In un profluvio di arti staccati, teste mozzate, accette e vomito, tra scene splatter con sangue a catinelle e dialoghi surreali, i malcapitati attori e maestranze cercano in ogni modo di sfuggire ai zombie, mentre l’esagitato regista, posseduto dal sacro fuoco dell’arte, continua a filmare con sadico compiacimento.

Inizia così la prima mezz’ora di Coupez (Final Cut) di Michel Hazanavicius, il film che ha inaugurato la 75ma edizione del Festival di Cannes nel maggio di quest’anno e che uscirà in Italia a fine ottobre. Prenotate un posto già fin d’ora. Nel 2011 il regista francese stupì il Festival di Cannes con The Artist (cinque premi Oscar), ed a undici anni di distanza è tornato sulla Croisette con questo divertente film dal titolo modificato in fretta e furia rispetto all’originale Z (comme Z), su specifica richiesta dell’Istituto Ucraino di Cultura visto il rimando alla lettera simbolo sui carri armati russi nei territori ucraini invasi.

Ma attenzione, non siamo davanti ad un film horror, ma ad una divertente, e a tratti spassosa, commedia o meglio ad un atto d’amore di Hazanavicius nei confronti del cinema.

Per il regista premio Oscar, mimare e ri-contestualizzare i codici dei generi cinematografici sembra essere diventata una specie di missione, che con Coupez (Final Cut) raggiunge forse nuove vette di sfacciataggine nella ri-appropriazione, pressoché completa, shot-by-shot, di Zombie contro zombie (One Cut of the Dead) di Shin’ichirô Ueda. Se con i due film sull’agente OSS 117, con cui si è fatto conoscere, scherzava in chiave comica con l’icona bondiana dell’agente segreto, qui la parodia si mescola al remake in copia carbone o copia conforme. Così carbone/conforme che uno dei personaggi più azzeccati, ovvero la strampalata produttrice, è interpretato dalla stessa simpaticissima attrice Yoshiko Takehara dell’originale giapponese. Originale presentato nel 2018 in prima assoluta a Udine, al Far East Film Festival, e diventato in seguito un piccolo cult fra i cinefili in Italia e un grande successo al botteghino all’estero. Ma dopo la prima mezz’ora di Coupez (Final Cut), fino a quel momento volutamente terribile e volutamente malfatto e approssimativo, scopriamo nella seconda parte la genesi di questa operazione, dove il cinema racconta se stesso e il suo faticoso farsi.

Bérénice Bejo con Matilda Lutz e Finnegan Oldfield

Per Hazanavicius, genitori originari della Lituania ma nato e cresciuto a Parigi, il tema degli zombie è in realtà solo un pretesto per parlare di meta_cinema, di amore per l’arte e per i set cinematografici, un grande omaggio al cinema più puro, quello fatto con pochi mezzi ma tanta passione da artigiani della celluloide, quelle figure nascoste ma non accessorie. Un mondo produttivo sotterraneo dove l’espediente diventa soluzione caldeggiata con budget irrisori. E nella terza parte trionfa il cinema nel cinema, il dietro le quinte, dove imprevisti del set, la compulsione, l’adattamento istantaneo, sono materia viva, plasmata da un insieme di variabili uniche e imprevedibili. Il cinema filma se stesso nell’atto in cui crea l’immagine. È nell’estremo tentativo di combinare il cinema alla fruizione “on air” dello stesso, che Coupez (Final Cut) dà il meglio di sé, tra il fonico colpito da diarrea, l’attore che si ubriaca nel momento meno opportuno, mogli con problemi di natura psicologica che tornano a recitare sul set e così via veniamo coinvolti in una girandola di situazioni diverse. «Un film strano, divertente all’inizio e commovente alla fine. Anche se è il remake di un film giapponese, per me è legato alla commedia italiana – ha dichiarato recentemente Michel Hazanavicius – perché racconta di gente tutt’altro che perfetta o eroica, anzi litigiosa, piena di difetti. Ma facendo squadra tutti loro diventano eroici. Non vivono in un mondo ideale ma nella dura realtà e lottano per la loro dignità. Ed è la qualità che amo nella commedia italiana». In questo lavoro di squadra Hazanavicius ha chiamato sul set, oltre agli amici e colleghi di sempre, anche la famiglia tra cui la moglie Berenice Bejo e la figlia Simone Hazanavicius. Con un finale che da una parte esalta la difficilissima arte del ritrovarsi in equilibrio precario quando si tratta di realizzare qualcosa in team, dall’altra intenerisce con un rimando di amore paterno verso la figlia aspirante regista. Il tutto tessuto insieme, in maniera invisibile, e lasciato esplodere nell’ultima scena in cui lo splatter orrorifico si è ormai sciolto nello humor, nei rumori imbarazzanti e nelle buffe espressioni, nello svelamento di tanti trucchi del sangue, banali quanto efficaci. Oltre alla spassosa presenza di Yoshiko Takehara, nel ruolo della produttrice, personaggio traghettato direttamente dal film di Ueda, in una sorta di rispetto del testo originale, da segnalare l’ottima prova dai toni schizofrenici di Romain Duris, che corre avanti e indietro, regalandoci una performance divertente per lo stesso attore, ma non semplice come potrebbe sembrare. Duris sembra essere l’avatar del regista stesso che ci evidenzia la poderosa mole di energia necessaria per realizzare un film, sia pur economico e di basse aspettative.

Bérénice Bejo fra il regista Hazanavicius e Romain Duris

In Hazanavicius, non sempre molto amato da una certa critica, convivono comicità e astuzia in un doppio sguardo, davanti e dietro la macchina da presa, che centra in pieno da un lato l’aspetto cameratesco delle relazioni sul set e dall’altro la celebrazione del cinema come sforzo collettivo, il tutto mantenendo sempre una grande capacità di sorprendere e giocare con il genere, grazie all’amore e alla passione per il cinema.

Non è certo la prima volta che il cinema giapponese funge da fonte ispiratrice per dei remake, basti pensare a Rashomon di Akira Kurosawa che vincerà il Leone d’Oro a Venezia nel 1951 e poi l’Oscar come miglior film straniero l’anno successivo. Un film dove i flashback assumono un ruolo fondamentale, tutti raccontano una verità partendo da un tempo diverso. Stravolgere il tempo, mantenendo però lo stesso filo narrativo, ha ispirato numerosi film come L’oltraggio di Martin Ritt o Quante volte… quella notte di Mario Bava o La comare secca di Bernardo Bertolucci. Sempre di Kurosawa l’altro film cult I sette Samurai, del 1956 che ispirò l’altrettanto famoso e celebrato I magnifici sette di John Sturges girato nel 1960 lungo la frontiera che divide il Messico dagli Stati Uniti con i protagonisti che da tradizionali samurai diventano impavidi pistoleri. Stessa sorte per La sfida del samurai (Yojimbo) sempre di Akira Kurosawa, film del 1961 che ispirò un altro western mitico come Per un pugno di dollari di Sergio Leone del 1964. Remake non dichiarato espressamente, anche se il regista giapponese a suo tempo rivendicò i diritti del film (che non erano stati pagati).

Nel caso di Coupez (Final Cut) di Hazanavicius, copia mimetica di Zombie contro zombie (One Cut of the Dead), approvata dello stesso Shin’ichirô Ueda, si può certamente affermare che siamo difronte ad una totale dichiarazione d’amore per il Cinema di ogni latitudine e declinazione. Un amore espresso riflettendo sul processo di creazione del Cinema stesso, attraverso un plot perfetto per lo scopo, sotto ogni punto di vista. Viva, dunque, il cinema da consumare al cinema! Da ottobre nelle migliori sale! Non perdetelo!