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Blognotes 08
Blognotes 14
numero 14

Il tema del numero è "CONTAMINAZIONI"

Articolo presente in

L’Ucraina che non c’è più

di Paolo Venti

Testo e foto di Paolo Venti

In Ucraina quando c’era ancora l’Ucraina.

Ucraina: ci sono stato, ci sono passato per andare in Russia, qualche anno fa, in bicicletta. Sono ormai quasi due mesi che le immagini della guerra si sovrappongono ai paesaggi che ho visto, i nomi dei luoghi che cercavo sulla cartina disperatamente sotto il sole li sento oggi al telegiornale, ne ascolto la distruzione. Anche questa è un’attesa che mi ha ammutolito, un’attesa dentro di me che le due immagini coincidano di nuovo, l’attesa stupefatta davanti a una sciagura di cui non so darmi conto, che accade su strade che ho pedalato, nelle vite di gente che ho conosciuto. Non ho la pretesa di aggiungere niente di nuovo, è chiaro, il mio pedalare lento e un po’ inconsapevole non è nulla rispetto alla tragedia di queste settimane, non so interpretare i fatti terribili se non come un qualunque lettore di giornali. Ma un ricordo, tanti ricordi forse li posso condividere per restituire una nota di umanità semplice a questo disastro di cui non si capiscono in fondo i confini e le dimensioni.

Volevo arrivare sul Don, circa duecento chilometri addentro nel territorio russo, fino alle terre in cui si è consumata la ritirata degli Alpini italiani nel 1943. C’erano rimasti due mie prozii di cui per decenni si è parlato in famiglia. E allora, con un po’ di follia, giù lungo il Danubio, da Belgrado a Bucarest, poi giù fino al Mar Nero, qualche pezzo caricando la bicicletta sul treno o su un autobus (alla fine saranno 1700 di contachilometri, più di 5000 di spostamento totale;) . Poi tutta la Romania fino al delta del Danubio, poi sfiorata la Moldavia e l’ingresso in Ucraina. Odessa, Kiev, Karkiv: pedalavo, mi ricordo, e riflettevo che da queste parti la storia ha tracciato solchi profondi, anche di recente, cercavo i segni lungo la strada. La russia è nata qui, a Kiev, la rus di Kiev. La religione ortodossa a Kiev ha la sua Gerusalemme, da qui sono partiti i Cosacchi alla volta del nostro Friuli, qui sono venuti a morire i nostri Alpini.

Entro in Ucraina dalla Romania, al valico di Galati il 12 luglio 2012: assurdità delle geografie da quelle parti, già allora, visto che devo entrare per una quindicina di minuti in Moldavia e presentare quattro volte il passaporto in mezz’ora… Rileggo oggi il libretto che nel frattempo ho pubblicato e colloco i ricordi al posto giusto: stormi di uccelli mi accolgono in Ucraina, Lada scassate, villaggetti sperduti, ma soprattutto mi accoglienza di Niku a Novosilke, un tizio a cui avevo chiesto indicazioni. Mi invita a casa, mi fa preparare un pranzo luculliano, mi fa preparare il bagno e mi porta in giro da amici, finchè siamo ubriachi in cinque sei.

Che ne sarà di loro, delle loro serre traboccanti di ortaggi, dei loro trattori? Odessa: ci arrivo caricando la bici su una marshrutka. Lungo il viaggio scherzo con una bambina dolcissima in braccio alla madre. Oggi avrà 16 anni, calcolo rapidamente: che ne è stato di lei e della madre?

A Odessa vedo la scalinata Potemkin, l’animatissimo Prymors’kiy Bul’var con la statua di Puskin, di Caterina II, la cattedrale Preobrazhensky, ma ricordo soprattutto Giulia, una ragazzetta sveglissima che gestisce l’ostello degli studenti in cui mi infiltro: che ne sarà oggi di Giulia, che ne è stato nell’inferno di missili e carri armati?

Da Odessa a Kiev sul treno, con bicicletta impacchettata: un poliziotto ucraino mi salva dal rigore del controllore, un donnone che vale per tre a cui non piace la mia bici. Che ne sarà di loro, oggi?

A Kiev faccio il turista fra la chiesa di San Vladimir e la splendida cattedrale di Santa Sofia, uno spettacolo di affreschi dell’XI secolo finché arrivo a piazza Maidan. Trovo traccia dei graffiti incisi dagli studenti sei anni prima, per la rivoluzione arancione, ancora tracce di storia recente, di un travaglio che continua, trovo i banchetti di protesta per l’arresto della Timoshenko, i pochi segni che sono in grado di cogliere di un calderone politico irrisolto. Ma anche i tabelloni per la Coppa Uefa che nel 2012 si svolse in Polonia e Ucraina, segno di un’Europa davvero alle porte. Poi la chiesa azzurra di San Michele del 1108, abbattuta dal 1937, rifatta nel 2001, a segnare le tappe della storia che da queste parti incide, eccome, sull’architettura e sulla vita delle persone. Vado in pellegrinaggio a Babi Yar ove nel 1941 i tedeschi hanno ucciso in una sola notte 35000 persone. Qui la storia è andata pesante, e anche oggi continua a fare lo stesso. …Prima di ripartire visito il complesso religioso del Lovra, bellissimo, preziosissimo, perchè qui a Kiev è nata la Russia, la Rus, il primo nucleo ortodosso nel IX secolo. Anche questo, ha un peso, qualche volta come in questi mesi un peso difficile da sopportare. Il treno mi sbarca a Karkiv, l’ultima città prima della Russia; mi immergo nella piazza Svobody, enorme campo per le parate di partito ritagliato fra il 1925 e il 1935. Rileggo e mi autocito per trasmettervi la sensazione diretta: “bella davvero qua la vita di sera: illuminano le fontane, c’è un sacco di gente che va avanti e indietro, si diverte, fidanzati che camminano abbracciati, donne eleganti con tacchi alti. E’ un’atmosfera molto serena, molto bella: la gente che si saluta, i fiori rigogliosi, le vie curatissime”. Cosa sarà oggi di tutto questo? davvero, cosa ha lasciato la guerra di tutte queste persone, di questa gente che passeggiava, di questi bambini, di questi fiori?

Ormai la Russia mi aspetta, poche decine di chilometri, in giornata sono al valiko di Verigovka, come mi hanno consigliato di fare. Arrivo felice perché sono vicino alla mia meta ma assaggio subito cosa vuol dire un confine: di qui non si passa, “solo Russi e Ucraini” mi intima il poliziotto russo, gentile ma irremovibile. Devo salire fino a Shebekino, più di cento km a nord e in bici è uno sforzo ulteriore non preventivato, di quelli che fanno più male. Entro in Russia dopo una attenta perquisizione della bicicletta, ma il resto del viaggio non importa, lo dedico ai miei zii alpini che non sono tornati. Importa qui parlare dei vivi, di una negoziante nell’ultimo paesetto ucraino, una donnona che mi ha venduto del cibo e ha fatto i conti su un vecchio pallottoliere sorridendo con la faccia rubiconda, conta parlare di Natasha, una signora che mi ha accolto nella sua casa a Volokonovka, il primo paesetto russo in cui mi fermo, come fossi suo figlio. Abbiamo parlato a gesti per due ore, ho capito che era vedova, che i figli erano lontani. Mi prepara la doccia, il divano: esigenze umane, incontro di persone. Chissà cosa sarà oggi della cassiera col pallottoliere, o di Natasha. O della ragazzina che a Nikolajevka mi accompagna in mezzo ai campi di mais a cercare i monumento agli Alpini caduti nell’ultima battaglia. O del vecchietto che mi dice “Dobro dobro” quando gli spiego cosa ci faccio lì in bici, “Bravo, bravo”, che mi suona come una riconciliazione, una fratellanza. Che oggi di nuovo non c’è. C’è fra le persone, che sono uguali identiche, buone e accoglienti, pochi chilometri di qua e di là dal confine, ma finisce, muore brutalmente quando la fanno morire gli stati, i governanti, le logiche perverse del potere politico. Non racconterò il viaggio di ritorno, il rientro a Kiev, la visita all’incredibile museo di Cernobyl che documenta la tragedia del 1986 e che è ritornato pericolosamente in auge in queste settimane. No, mi bastava arrivare al confine e raccontarvi che non ho trovato differenza alcuna fra la gente di qua e la gente di là, che la gente a livello della gente è tutta buona, che la guerra non appartiene alla gente ma è come un’epidemia che viene da fuori, una tempesta che lascia rovina dove prima si poteva parlare, comunicare, trovare ospitalità anche senza sapere una parola di quella lingua o senza avere nulla da dare in cambio.

E ora aspetto, aspetto per loro che questa nuvola di distruzione si dissolva, che torni il tempo delle cose normali, degli ortaggi, delle passeggiate, che Niku, Natasha, la donnona col pallottoliere, la ragazzina gentile possano respirare ancora in una dimensione umana.