Blognotes 08
Blognotes 15

INCERTEZZA è il tema del numero più recente di Blognotes 15

Articolo presente in

Free Jazz

di Marco Casolo

Libertà e musica. Conversazione con Massimo De Mattia

Semplicistico ridurre il free jazz a pura disciplina artistica. Il free jazz è stato – ed è – fenomeno sociale. Il free jazz è attuale e contemporaneo, non mi riesce di archiviarlo come transitorio, datato, storicizzato.

Spiego.

Il free jazz, per me, dimostra che è davvero possibile coniugare diritti individuali e diritti collettivi. Il free jazz garantisce progresso e sviluppo; abolisce le gerarchie, gli ostacoli culturali, ideologici, linguistici; il free jazz traduce idee e istanze in significati simultanei universali.

Il free jazz realizza utopie, gli impossibili diventano possibili, è democrazia vera, libertaria.

Insegna l’arte dell’improvvisazione e la pratica etica della libertà, applicata non solamente alla musica e alle arti, ma anche ai comportamenti quotidiani e alle relazioni; il free jazz richiede coraggio e determinazione, per poter affrontare ogni possibile, ogni imprevisto, l’impensabile, l’inimmaginabile; per rimediare ad ogni errore di valutazione, per ravvedersi. È scelta di lottare contro le discriminazioni, le differenze, le sperequazioni. Il free jazz è credo, fede, modo creativo di vivere i rapporti umani e sociali in maniera armonica, empatica, compassionevole; crea tra gli esseri e le cose relazioni eque, paritarie, basate su un confronto valoriale orizzontale, privo di autorità e autoritarismi; il free jazz è una via per prendere consapevolezza di sé in rapporto al mondo, ai simili e ai dissimili, perché tutti valgono e sono uguali, in un sistema creativo libertario. Il free jazz è una società ideale.

Il free jazz è atto politico, presa di coscienza, presa di posizione.

La libertà e i diritti degli altri incutono timore?

Proprio questa la domanda che tutti dobbiamo porci. Soprattutto oggi, ora. Se nelle arti la libertà sembra essere una conquista ormai acquisita, perché non lo è,  o non lo è completamente nelle forme sociali in cui viviamo? O almeno, perché è continuamente a rischio? Neghiamo agli altri gli stessi diritti per cui abbiamo lottato e che abbiamo saputo conquistare, o che abbiamo ereditato alla nascita; perché?

In ambito artistico, non sappiamo porci con interesse, curiosità e serenità di fronte a un evento in cui tutto viene messo in discussione. Di cosa abbiamo paura? Della “dissonanza”? Temiamo ogni possibile compromissione e, forse, siamo insicuri di noi.

Ci ostiniamo a cercare rassicurazione e conferma nelle cose che già conosciamo, nei sentimenti certi e sicuri, perciò seguitiamo e persistiamo negli stessi comportamenti, ci perpetuiamo nelle abitudini, ci crogioliamo nella nostalgia.

Io sono convinto che indulgere nella nostalgia possa portare ad atteggiamenti passatisti, retrivi, addirittura reazionari.

In realtà non sappiamo o non vogliamo metterci in gioco. L’ignoto incute paura,  vertigine. Invece dovremmo volerlo accogliere. (Au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau – Baudelaire).

Il free jazz, una musica creativa istantanea

Il significato più vero e profondo di questa musica sta nel suo comportamento sociale, perché lì si prospetta la possibilità concreta di comporre comunità, non solo artistiche: libertarie. Da questo punto di vista il free jazz è il paradigma di una società ideale; esso avvia un processo creativo democratico e corale, in cui si riducono e minimizzano ruoli e gerarchie secondo un modus operandi egualitario. Ecco allora che il contenuto collima con la forma, e finalmente si possono davvero realizzare utopie. L’improvvisazione è un metodo aleatorio, ma razionale, di interagire secondo rigorosi, tuttavia sottintesi, criteri di senso; le logiche sono le stesse della conversazione: linguaggio, significato, segno, sviluppo, dinamica, tempo, gesto, relazione.

Improvvisare vuol dire intraprendere con determinazione ferma percorsi dalle destinazioni ignote, mete imprevedibili e insospettate, sempre nuove; andare a cercare, coltivare il dubbio, intuire, scoprire, mettere tutto in continua discussione; incamminarsi verso l’incerto, accettandone comunque gli esiti; non avere mete personali. Avendo chiaro che il fine è il percorso. Improvvisare significa porsi in modo umile e ricettivo verso tutti i fatti del quotidianità, sospendendo il giudizio, facendo scelte.

Il free jazz è una scienza. Il free jazz, cioè la musica creativa istantanea, si rivolge idealmente a un nuovo pubblico di ascoltatori, coscienziosamente partecipi ed emotivamente attivi. Per questa ragione crea comunità. Chiunque si renda, con spirito non giudicante e coraggioso, disponibile a partecipare, ascoltare, osservare può ritrovarsi coinvolto fattivamente nel processo in atto, però deve innanzitutto spogliarsi dei retaggi e dei blocchi che ingabbiano il pensiero. Con molta sincerità e umiltà. Il free jazz, lo ripeto, è presa di coscienza attraverso il rito.

Nel free jazz il luogo creativo, cioè il rapporto fisico tra i musicisti, lo spazio e gli altri, diventa uno spazio ribollente; si crea una sorta di prossemica naturale, capace di collocare tutti e tutto alla distanza giusta, secondo i modi naturali e spontanei di un’esperienza partecipata.

Calano le protezioni, è vero, occorre rinunciarvi, bisogna dichiararsi indifesi ed esporsi.

Condividere un’esperienza performativa di musica libera impone un grande dispendio, perché il corpo, nello spazio sonoro, metaforicamente danza e tutti  i sensi devono espandere le proprie capacità.

Come in altre esperienze artistiche estemporanee (succede anche nella danza, nel teatro) comporta dépense (Bataille): dono, sacrificio, dono di energia.

Free jazz e action painting

Se devo pensare a qualche nome simbolo mi viene l’esempio del pianista Cecil Taylor: nero, omosessuale, propugnatore della musica più libera, in un periodo storico, politico, sociale in cui negli Stati Uniti queste erano tre “ottime” ragioni per subire marginalizzazione, segregazione artistica, violenza, anche fisica, discriminazione culturale, razziale, economica.

Oppure il sassofonista Ornette Coleman, che nel ‘61 pubblica FREE JAZZ, a Collective improvisation, manifesto del nascente movimento.

La copertina del disco cita un’opera di Jackson Pollock: una condivisione programmatica tra la tecnica dell’action painting e del free Jazz, stili caratterizzati entrambi dalla ricerca di un’estrema estemporaneità.

Proprio come nella pittura di Pollock, dove il movimento del gesto, l’energia e la sua “casualità” intelligente non consentono certamente un’identica ripetitività dell’opera, il free jazz diventa movimento e dichiara perentoriamente le nuove regole della musica progressiva – progressista – e di comportamento sociale.

E oggi ?

Il jazz oggi – la musica in generale – spesso non dichiara alcun contenuto e si avviluppa alla forma, rischiando il manierismo, la tautologia. La musica oggi troppo spesso nega se stessa. Segna il passo. Io credo che purtroppo il jazz ormai si sia irreversibilmente istituzionalizzato, abbia rinunciato alla rivolta, abbia esaurito o quasi il suo impulso libertario. Si sia giocato l’anima. Con poche eccezioni.

Proprio oggi, che ci sarebbe urgenza di vera rivolta…

Ma forse non siamo proprio più capaci di immaginarla, la rivolta. Oggi il suono-rumore è pervasivo, nella sua insignificanza. Un parlato-suonato continuo, logorroico, querulo, che non concede spazio alla riflessione, incessante e privo di respiro dinamico, privo di un intervallo di decantazione. Ti vuole passivo e remissivo.

Il flauto

Sprazzi di luce sulla musica e sulle mie cose

Mi domando se e dove si possa ancora suonare questa musica che parla di libertà in un presente culturale e storico davvero così angusto; l’ascolto dominante viene imposto. La nostra istanza per la musica libera chiede un’attenzione tutta volta alla contemporaneità, al presente, come presupposto di futuri forse ancora possibili. 

È una forma artistica solidale, non impegna risorse, anzi, le dona. Oggi tutto si consuma completamente nel presente, con avidità famelica; poche le occasioni per una riflessione progressiva corale.

 Il mio interesse per questa musica e il mio strumento è cresciuto in un contesto storico di grande vuoto e di grandi necessità; dai lunghi respiri. La creatività germinava ovunque, si alimentava nei luoghi più nascosti, ma poi tracimava. Era diffusa, insopprimibile, incontenibile e ribelle. Anche qui, nel nostro piccolo capoluogo di provincia, Pordenone, una piccola metropoli musicale, ai tempi. Ma era davvero così. Imbracciavi uno strumento quasi per necessità, era una scelta anche sociale. Dichiaravi una poetica o vi aderivi. Era un modo di affrancarsi.

La musica mi ha portato doni immensi, mi ha consentito di incontrare e stringere relazioni con persone straordinarie, di assistere e partecipare a fatti ed eventi impossibili da immaginare senza, di intrecciare esistenze, pensieri e mondi. Di diventare persona. Di essere identificabile, riconoscibile.

Di restituire. Il flauto è tutt’oggi e lo è per sempre: il primo ed eterno amore.

Da cinquant’anni lo imbraccio e ci abbracciamo, quotidianamente, per ore. Sono un autodidatta. Ho cercato una strada personale, una via che fosse mia, ma non esclusiva. È diventato organico al mio corpo, parla per me. Ma pensiamo insieme.