MITTELEUROPA E IMPERO ASBURGICO:
IL DOPPIO RAPPRESENTATO A TUTTI I LIVELLI
La prestigiosa collana “I Meridiani” (Mondadori) ha edito una nuova versione del libro forse più importante di Thomas Mann mutandone il titolo: da «La montagna incantata» in «La montagna magica» . La maggior parte dei germanisti ha condiviso pienamente la scelta operata dalla curatrice e traduttrice, Renata Colorni, dato che il titolo originale («Der Zauberberg»), per ammissione dello stesso Mann, era stato ispirato da una frase di Nietzsche: “Ora si apre a noi il monte magico dell’Olimpo e ci mostra le sue radici.”. Piero Citati ha fatto notare che l’Olimpo era, per Nietzsche, “…il mondo della violenza a dismisura, della colpa, della tenebra, miracolosamente capovolti in legge, armonia, misura, equilibrio, purezza e profezia” .
Il monte magico è, dunque, sin dall’inizio concepito come un “doppio” che si evolve tra spazi opposti: il primo sono “…le pianure di laggiù…”, da dove proviene Hans Castorp (inizialmente per restarvi una settimana in visita al cugino, per poi fermarvisi ben sette anni), ove primeggiano il lavoro, la ragione, la misura, il limite razionale: tutti valori sintetizzati in Amburgo, metropoli laboriosa protesa con navi e traffici verso le lontane Americhe e il resto del mondo in frenetico movimento. L’altro lato (“…le montagne di quassù…”), sede del sanatorio che fa da scenario all’intero romanzo, è invece il luogo della malattia vista, però, non come sofferenza ma come fascinazione, luogo del sogno, della vita irreale e della morte anch’essa vissuta e non rimossa. Attraverso lo sguardo dell’apparente protagonista centrale, Castorp, e del mondo del sanatorio che gli ruota attorno, le pianure “di laggiù” diventano lontanissime, estranee, appunto un doppio della realtà, fino a venir dimenticate e sostituite dalla neve, dal sole e, soprattutto, dalla malattia.
Ben presto il lettore si accorgerà che il vero personaggio centrale del romanzo non è Castorp ma il massone italiano Settembrini, grazie al quale si comprende – per dirla con Claudio Montefoschi, autore della Prefazione all’edizione “Corbaccio” – “…La sconsideratezza della morte che è nella vita…” tanto che Mann fa dire al medico Behrens: “….Conosco la morte, sono un suo vecchio funzionario, mi creda, lei la sopravvaluta…Noi veniamo dalla tenebra e andiamo nella tenebra. In mezzo ci sono le esperienze vissute. Ma il principio e la fine, la nascita e la morte, non sono le nostre esperienze.”
Il “lassù” ed il “laggiù” convivono nel medesimo arco di tempo: emblematicamente rappresentano il doppio che convive con la realtà.
1 Cfr. Thomas Mann «La montagna incantata» Traduzione ed introduzione di Ervino Pocar. Prefazione di Giorgio Montefoschi. In Appendice: Thomas Mann «La montagna incantata» Lezione agli studenti di Princeton. Ed. Corbaccio, II ed., 2011.
2 Segnalo che il canale TV RAI TRE per la trasmissione “Passato e presente” curata da Paolo Mieli ha dedicato un intera trasmissione al libro di Mann trasmessa il 4 gennaio 2024 con inizio alle ore 13.15 e rivedibile su RAI PLAY.
3 Cfr. Piero Citati «La nuova montagna di Thomas Mann» in R2 Cultura 2 “La Repubblica” 3 novembre 2010 pag. 55.
4 Cfr. Thomas Mann «La montagna incantata», op. cit. nota 1. Giorgio Montefoschi, “Prefazione”, pag. IX.
UN MONDO BICEFALO COME L’AQUILA CHE LO RAPPRESENTAVA
Tutto finisce nel 1914 quando l’immane tuono di mille e mille cannoni segna la fine del mondo estetico-borghese austroungarico, ovvero quanto di più “doppio” sia mai esistito nel tragico periodo racchiuso dal “secolo breve”.
L’Impero Austroungarico viene cancellato chiudendo non solo una storia statuale ma anche un complesso ed affascinante viluppo di arte, letteratura, musica che si volle poi definire “Mitteleuropa” finendo con l’affascinare intere generazioni di intellettuali e gente comune che, per paradosso, ne cantarono le lodi “in articulo mortis” rappresentando, quand’era già conclusa la sua parabola, ch’era stato un periodo di ordine, felicità, serenità, vivisezionato nei suoi dettagli da Claudio Magris ne «Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna» .
Quando mi si è chiesta una riflessione sul concetto di “doppio”, non ho potuto fare a meno di pensare subito alla “Mitteleuropa” perché, come in un gioco di scatole cinesi, lungo tutto il regno di Francesco Giuseppe si sedimentarono in ogni angolo della vita quotidiana dei tanti popoli che ne costituivano l’ossatura, una miriade di “doppi”: amministrativi, politici, religiosi e culturali caldeggiati e volutamente coccolati dal paternalismo imperial regio.
Il vocabolo tedesco “Mitteleuropa” («Europa di mezzo» o «Centro Europa») designò l’Europa centrale o danubiana e fece il suo ingresso nel vocabolario tedesco proprio nel 1914 grazie a Franz Leopold Neumann, al preciso scopo d’evocare l’ambiente, soprattutto culturale, dell’Impero Asburgico al suo apice.
Per 2.888 Km. il Danubio, la cui paternità è contesa tra Fustwagen e Donauschingen, due paesi, mentre, in realtà pare che le sue sorgenti si trovino nella Berg – come chiarisce Magris nel suo «Danubio» – fece da collante a questa grande operazione di acculturazione ed inculturazione dei popoli e delle etnie governate da Vienna che faceva, benignamente, intendere d’operare di concerto con Praga, Budapest e Trieste che, pur essendo fra loro diversissime, si sussumevano tutte nell’unico riferimento centrale. Una pluralità che si fa chiave interpretativa del tutto!
L’immenso corso fluviale, infatti, finendo col gettarsi nel Mar Nero portava con se un caleidoscopio di realtà diversissime, di babele linguistiche, tradizioni culinarie, miti e leggende poste a base d’un crogiuolo di culture persino opposte l’une alle altre ma il cui comun denominatore finiva con l’essere proprio lui, il grande fiume, che attraversando ben cinque realtà nazionali finiva con l’essere la rappresentazione tangibile dell’aquila bicipite degli Asburgo, massimo emblema del doppio, “dell’unità nella diversità” in cui si riconoscevano Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria, buona parte del nord Italia, parte determinante dell’area balcanica fino alle propaggini macedoni, Bulgaria e Romania.
Le sue placide acque erano vissute come il cuore pulsante dell’Impero, o, come si diceva allora, di Vienna “…dove è splendido vivere, città gaudente, raffinata e cosmopolita, capitale di un paese di geni poiché qui avevano confluito tutte le correnti della cultura europea”.
L’Impero era esso stesso un “doppio”, nella sua consapevole scelta di configurarsi come “una Grande Svizzera”, civile e armoniosa, pittoresco e composito mosaico che riuniva “…le Alpi del Tirolo, i Salzkammergut, i dolci orizzonti della Boemia, gli altipiani selvaggi del Carso, le rigogliose contrade dell’Adriatico, i palazzi di Vienna, le chiese di Salisburgo […] le vaste steppe della Puzsta […] gli altipiani dei Carpazi e i bassipiani del Danubio, con tutte le meraviglie del suo bacino fluviale, con le sue praterie ricche di uccelli e le grandi isole popolose del suo affluente, il Tibisco. ”
In ogni discorso o atto politico–amministrativo, l’Imperatore esordiva con la locuzione “…miei popoli…” (Meine Völker), che, non casualmente, farà da netto contraltare, da cesura definitiva ed insanabile con il linguaggio che, dal 1933 in poi, verrà adottato per dodici anni dal caporale austriaco Adolf Hitler, assurto a Führer: “Ein Volk, ein Reich, ein Führer” (“Un popolo, un Reich, un Führer”).
Così come non è un caso che, fin dagli esordi, la “Mitteleuropa” venne proposta in una poliedricità di chiavi di lettura, tutte, comunque, comprendenti sopra ogni cosa la visione plurinazionale senza operare una “reductio ad unum” che, in realtà si realizzava nella figura stessa dell’Imperatore e questo perché la “Mitteleuropa”, fin dalla culla, era presentata ai suoi popoli, ed al mondo, appunto con la vocazione al doppio.
Nel 1840 il pittore Wilhelm List, personaggio chiave della corrente artistica nota come “secessione viennese”, la propose come grande spazio culturale, (ma anche economico), da contrapporsi all’egemonia inglese e francese. Nello stesso anno il cancelliere austriaco Felix Schwarzenberg ipotizzava un modello, che definì “dei Grandi Tedeschi”, che, pur mettendo al centro l’Austria, negava ogni deriva nazionalistica lanciando l’idea di progressivi spazi di autodeterminazione culturale da concedere alle aree periferiche ed alle loro etnie purché agissero “dentro” il perimetro proposto da Vienna. Il pubblicista conservatore Michael Viethaler Frantz vi intravvedeva l’ipotesi d’una entità sovranazionale, incentrata sull’Austria quale elemento propulsore ma capace di agire senza autocratismi, da contrapporre alla prospettiva di Bismarck, e dunque contrario alla tesi di Schwarzenberg, nella quale, in filigrana, leggeva il pericolo del pangermanesimo.
Dall’altro lato l’austroslavismo, pur confermando i due poli cruciali della sovranazionalità e della centralità asburgica, con l’irrinunciabile ruolo da perno dell’Austria, formulò l’idea di un Impero federale quale garante delle nazionalità minori del centro Europa contro la duplice pressione del pan germanesimo e del panslavismo russo. Per paradosso persino il cosiddetto “austro marxismo”, rappresentato dal Partito Socialdemocratico, che, in linea di principio, avrebbe dovuto propugnare l’internazionalismo proletario, non disdegnò l’ipotesi federale attorno all’Austria, giungendo a far dire a taluni dirigenti che poteva pur essere esaminata l’ipotesi di un’unione federale fra i popoli lavoratori di Germania (Prussia) ed Austria-Ungheria.
È incredibile che ancora nel 1918, ad un passo dall’esplosione dei nazionalismi che di lì a poco avrebbero prodotto due Guerre Mondiali i cui riflessi giungeranno fino ai nostri giorni con l’implosione balcanica ed conflitto in Bosnia, Serbia e Kossovo, sia stato possibile che l’Impero asburgico chiedesse, (e soprattutto ottenesse), da ciascuno dei suoi sudditi di essere non soltanto “…un tedesco, un ruteno, un polacco, un boemo, un tirolese, un triestino, un trentino, un serbo-croato ma qualcosa di più, qualcosa al di sopra….” in nome d’un armonia sovranazionale che avrebbe dovuto superare tutte le barriere, facendo in modo – per dirla con Franz Werfel – che “…il centro si facesse interprete della periferia e viceversa”.
Francesco Giuseppe, in questo, fu lungimirante: consapevole d’essere circondato da realtà forti e centralizzate (la Francia ad Ovest, la Prussia a nord, la Russia ad est) unificò l’Impero attraverso un’azione di rifiuto dei nazionalismi più accesi attraverso quello che Magris definisce “…retrogrado immobilismo che viene, cioè, rivestito di un profondo significato che assurge a manifestazione di superiore saggezza: così i limiti e i difetti diventano pregi e virtù. La lenta impotenza diviene perciò statica, grandiosa, si trasforma da causa in rimedio della labile condizione politica, in quanto [….] questa inerzia scaturiva dalla consapevolezza che ogni passo, anche il più piccolo,era un passo nell’abisso.”
Continuiamo a seguire il ragionamento di Werfel condensato da Magris perché illuminante del doppio posto al centro di questa riflessione: “…Si agiva in quel paese – e talvolta sino ai supremi gradi della passione e alle sue conseguenze – sempre diversamente da quel che si pensava, oppure si pensava in un modo e si agiva in un altro […] la figura del burocrate riassume l’essenza dell’impero, i suoi metodi di governo e i suoi immobili valori, la panacea politica contro il dinamico incalzare del tempo e i fermenti centrifughi. Senso dell’ordine e della gerarchia, avversione ad ogni titanismo e rinuncia attiva ad ogni trasformazione delle cose vengono sublimate nel burocrate, che ricorre in tutta la letteratura austriaca, da Grillparzer a Musil, e si esprime fin nella voce del signor von Trotta «burocratica, lenta e un po’ nasale» .
La capacità della costruzione istituzionale e della fascinazione culturale dell’Impero Austro Ungarico (e della “Mitteleuropa”), accentuatasi dopo la sua caduta, sta appunto in questo: mentre le altre nazioni del continente si lanciavano a capofitto nelle convulsioni iper-nazionalistiche e nelle abbacinanti avventure del futuro a portata di mano grazie al dinamismo rappresentato visivamente dai futuristi, la “Cacania”, di cui parla Musil, erge se stessa e la sua azione come cifra identitaria nel suo consapevole muoversi pachidermico, difensivo del mantenimento dello status quo presentato, ai popoli che ne compongono il mosaico strutturale, come una scelta saggia: sola ed unica in grado di preservare il proprio mondo senza incorrere in scossoni. Ecco: il doppio pensiero che produsse un duplice modo d’agire pur operando in un mondo esterno che, invece, a tutti, dall’Imperatore all’ultima lavandaia, appariva comunque in perenne movimento attorno a se, ma in cui era comodo e funzionale stare assolutamente fermi producendo un vero e proprio complesso d’inconsci comportamenti e modi di pensare .
5 Cfr. Claudio Magris «Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna» Torino, Einaudi, 1988.
6 Cfr. Claudio Magris «Danubio» Prefaz. Gianluigi Beccaria. Torino, Einaudi, 2015.
7 Franz Werfel cit. da Claudo Magris in «Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna» pag.18.
8 Cfr. Jura Soyfer «Così morì un partito», Prefazione di Eugenio Spedicato, Genova, Marietti Ed., 1988.
9 Franz Werfel cit. da Claudo Magris in «Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna» pag. 20.
10 Franz Werfel cit. da Claudo Magris in «Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna» pag. 23.
11 Il termine si ritrova per la prima volta in Musil. Nell’Austria degli Asburgo tutto era “Imperial-regio”, Kaiser-Königlich, abbreviato in K.K. che si pronuncia kaka da cui, ironicamente, Musil trasse la locuzione Cacania. Cfr. Robert Musil «L’uomo senza qualità» Torino, Einaudi, 1972. Vol. I, cap. 8, pag. 26.
12 Cfr. Carolus L. Cergoly «Il complesso dell’Imperatore. Collages di fantasie e memorie di un mitteleuropeo», Milano, Arnoldo Mondadori Ed., 1979.
CULTURE CONSAPEVOLI DEL “DOPPIO” IN CUI AGIVANO
Dalla periferia, dalla Galizia come dalla Bucovina, giungevano a Vienna a Praga, a Budapest come a Trieste menti brillanti che ne arricchivano costantemente la vita culturale ed artistica. Incredibilmente, proprio grazie al pacioso modus vivendi d’un mondo apparentemente immobile. Tutti sembravano trovare, in un identico lasso di tempo e nello spazio fisico di questo “doppio” stato «Imperial-regio» o «Imperiale e Regio», il modo di esprimersi e di produrre opere assurte ai massimi vertici di tutti i campi della cultura grazie a gruppi come il “Bauhaus” in architettura, la “Secessione viennese” nelle arti figurative, il cinema che produsse “Metropolis” e “L’Angelo azzurro”.
Un impressionante elenco di scrittori, scienziati, filosofi, cineasti e musicisti che segnarono un’ epoca ne testimonia la ricca poliedricità: Arthur Shnitzler, Franz Werfel, Sigmund Freud, Max Brod, Franz Kafka, Joseph Roth, Robert Musil, Gregor von Rezzori, Italo Svevo (il cui vero nome era Ettore Schmitz), Ludwing Wittgenstein, Adolf Loos, Arnold Schönenberg, Oskar Kokoscha, Hugo von Hoffmannsthal, Rainer Maria Rilke, Stefan Zweig, Carolus L. Cergoly, Karl Kraus, Ferdinand von Saar, Carlo Michelstädter.
Tutti, nessuno escluso, avevano una propria, specifica, ragione per riconoscere che “quel” mondo poteva pur essere, in molte misure, imperfetto, ma nel contempo erano consapevoli che altrove, pur essendoci occasioni, non vi avrebbero trovato il medesimo humus. Prodotto e nel contempo, produttore di stimoli sempre più ampi grazie alle multiple facce offerte da quel tranquillo traballante Impero, capace però, da oltre due secoli, di tenere unite le sue mille entità etniche da ciascuna delle quali la cultura in generale traeva forza e stimoli per tali e tante produzioni.
Un caso significativo è certamente Italo Svevo. Scrive la critica Elisabetta Baccheretti:
“….Nel “caso Svevo” il gioco tra identità ed alterità come problematica convivenza tra le entità schizomorfe dell’homo duplex si situa in partenza su un asse biografico, con una buona dose di ambiguità, nello sdoppiamento autoimposto tra il chi vive – Ettore Schmitz -, e il chi scrive – Italo Svevo -, con effetti di inafferrabilità estrema del chi è, ottima esca per accendere testimonianze e giudizi contraddittori, prima di tutto tra i contemporanei.
Leggiamo il commosso necrologio pubblicato anonimo ma di pugno di Montale, apparso il 18 settembre 1928 su “Il Lavoro” di Genova (Svevo era spirato il 13, per le conseguenze di un incidente automobilistico): “Egli per i suoi rappresentanti, per i suoi clienti, per la Trieste dei traffici e della navigazione, fu per tutta la vita il signor Schmitz, commerciante ben quotato, con una solida posizione, conti correnti aperti in banca, e ottime referenze.
Questa era l’apparenza, o – diciamo così – la scorza: Sotto sotto, un altro uomo esisteva in lui; aveva altre preoccupazioni che quelle dei contratti e delle forniture, faceva altre notazioni che quelle dei prezzi e dei cambi, nutriva ambizioni ben diverse – e più alte di quelle del traffico e del lucro.
Sotto il commerciante accorto, c’era un analista del cuore umano, un vivisezionista inesorabile di sentimenti propri ed altrui, un osservatore potentissimo della mediocrità della vita, delle piccole cause ridicole che governano gli uomini e le loro azioni” .
Credo che fra i tantissimi autori che ho citato si debba prestare particolare attenzione a Robert Musil. Non casualmente Ulrich, il personaggio centrale de «L’uomo senza qualità» – chiamato inaspettatamente e persino suo malgrado, a far parte del Comitato istituito per organizzare nientemeno che il sessantesimo anniversario dell’incoronazione di Francesco Giuseppe, denominato “Azione patriottica” – pensa subito di mutarne in cuor suo la denominazione in “Azione parallela”, a volerne sottolineare la distanza e differenza rispetto alla realtà. Una metamorfosi nominalistica che, tuttavia, è perfettamente coerente con le sue opere precedenti ove la doppiezza è presente come una costante che trae spunto dal cadente mondo mitteleuropeo.
Si pensi ai «Turbamenti del giovane Törless » dove viene rappresentata, nella differenza fra educazione militaresca ed opprimente del collegio militare e la realtà esterna, la folgorante parabola che unisce in un destino ineluttabile, sotto ogni cielo, vittima e carnefice; oppure al trittico «La morte a Venezia», «Tristano» e «Tonio Kröger» tutti in grado di rappresentare efficacemente, pur in contesti e situazioni diverse, la percezione del disfacimento e della corrosione da parte del tempo, cui però nessuno dei personaggi centrale vuole o sa sottrarsi .
Infine, per concludere, non si può far a meno di rammentare il tragico urlo finale di Francesco Ferdinando Trotta che, solo, disilluso del mondo cui si era tenacemente aggrappato fino alla fine, si reca nottetempo alla Cripta dei Cappuccini al solo scopo di poter onorare, un’ ultima volta, la salma di Francesco Giuseppe, ivi sepolta. Quando grida il tradizionale “Dio conservi!” dei tempi passati, si sente redarguire dal frate che gli aveva concesso di entrare: “Zitto!!”, contemplando, in tal modo, il riflesso della propria sconfitta assieme alla definitiva fine di tutto un mondo.
C’è da chiedersi: la maggior parte di loro era cosciente del gigantesco “doppio” entro cui agivano? Quello con se stessi e quello della e nella società austro ungarica? Credo di si !
Solo che alcuni di loro si trovavano perfettamente a proprio agio in questa condizione; altri, i più sensibili, avevano intuito di danzare sull’orlo di un baratro di cui, però, non compresero le ragioni né videro i contorni effettivi se non quando, ormai, vi erano caduti irrimediabilmente dentro.
13 Cfr. Elisabetta Baccheretti «Italo Svevo e i suoi doppi» Relazione al Seminario «Identità, alterità, doppio» Dipartimento di italianistica, Università di Trieste., s.a. pag. 3. (reperibile anche da internet)
14 Cfr. Robert Musil «Il giovane Törless» Introduzione e traduzione di Giorgio Zampa. Milano, BUR,1974.
15 Cfr. Robert Musil tutti i tre testi sono pubblicati in unica edizione. Traduzioine di Emilio Castellani. Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1988.
16 Meriterebbero altrettanta attenzione anche le novelle brevi «Cane e padrone», «Disordine e dolore precoce» ed infine soprattutto «Mario e il mago» in cui Mann sottilmente rende l’atmosfera di falsa grandezza che si era creata in Italia negli anni del nascente consolidarsi del fascismo in Italia rappresentata da un ipnotizzatore che fa credere vero ciò che non è. Anche questi tre testi sono stati pubblicati in unica edizione con traduzione di Lavnia Mazzucchetti e Giorgio Zampa. Milano, Arnoldo Mondadori Ed, 1972.
17 Cfr. Joseph Roth «La cripta dei cappuccini» Traduzione di Livia Terreni., Roma, La Biblioteca di Repubblica, n. 23, s.a., pag. 191. Merita sottolineare che il libro fu scritto da Roth nel 1938 quando i nazisti avevano già compiuto l’”Anschluss “dell’Austria
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