ll naufragio del tempo
Ragionare attorno al fattore temporale, il fattore “T”, è una condizione che rispecchia una sensibilità e inquietudine contemporanea, che ha profonde radici nel Novecento.
Generalmente ogni tempo presente ha sempre un forte debito con il suo recente passato, anche se normalmente non lo ammette perché troppo preoccupato a tradirlo. Così noi, nei confronti dell’enorme giacimento culturale che è stato prodotto all’interno del “secolo breve”, talvolta ne travisiamo il suo effettivo valore.
Il presente contributo sul tema del tempo è organizzato in tre parti formanti assieme una sorta di trittico coerentemente svolto. Sono trascrizioni di lezioni accademiche o di contributi resi a vario titolo, uniti da una proprietà commutativa. L’ordine dato è, perciò, casuale.
Nella parte dal titolo “il tempo racchiuso nella terra” si intende chiarire quale sia l’attuale ruolo della disciplina archeologica nella città contemporanea intesa, quest’ultima, nella sua più ampia definizione di città-territorio. L’uomo ha bisogno dello spessore temporale per riconoscere nel passato le radici della propria identità.
Nella sezione dal titolo “Le figure del tempo” si ragiona attorno ai paradigmi (immagini archetipiche) sui quali si sta basando l’attuale ricerca architettonica ogni qualvolta affronta la questione del tempo. Nel testo si fa riferimento, in particolare, alla figura del palinsesto che ha puntuali riscontri anche in altre esperienze artistiche.
Nella parte dal titolo “cortocircuiti” ci si focalizza su un concreto esempio, un progetto di architettura realizzato dallo scrivente assieme con l’artista Renzo Marzona. Un’opera in grado di dimostrare ed esplicitare gli argomenti trattati nelle altre sezioni.
Se alla fine di questo scritto il lettore percepirà l’alone di un altro senso del tempo, solo allora, forse, l’autore sarà riuscito a trasmettere qualche cosa che racconta dell’ infinito, di cui il tempo è l’immagine.
Premessa
“Il mare è perennemente agitato contro la terra.
Lei ha memoria e lui no,
lei trattiene il tempo e lui lo cancella.
è una spasmodica lotta contro questo ineludibile destino”
Anonimo del XXI secolo (1)
La citazione, comprensiva di nota (1), è un semplice tentativo di imbastire con il lettore una fuggevole complicità che pone, però, una questione fondamentale: l’attuale rischio di incomunicabilità con il futuro determinato dagli attuali dispositivi multimediali e immateriali con i quali comunichiamo. Che cosa rimarrà alla fine di questo secolo di tutte le nostre infinite comunicazioni e produzioni che ci affanniamo ad affidare a dei software evanescenti? Se ci pensiamo, solo trent’anni fa utilizzavamo dei dispositivi, come ad esempio i floppy disk, di cui ora non abbiamo memoria, né come supporto né come dati lì archiviati. Stiamo dando origine ad una generazione senza memoria di sé, incapace di comunicare e di lasciare una testimonianza concreta al futuro. Abbiamo esploso a dismisura la capacità di dominare lo spazio attraverso la rete globalizzata ma non siamo stati capaci, altrettanto, di addentrarci nel tempo futuro. Questa divaricazione spazio temporale è drammaticamente presente. Questo problema non è avvenuto, ad esempio, con la rivoluzione della stampa del XV secolo che ha determinato un progresso armonico spazio-temporale. Forse stiamo realizzando, senza accorgerci, una sorta di buco nero del tempo.
Pertanto ragionare sul “fattore T” risulta quanto mai importante e urgente al fine di porre in qualche modo un rimedio a questa paradossale nostra condizione.
(1) “Questa frase è stata trovata casualmente due anni fa nel 3.534 A.D., all’interno di un dispositivo di archiviazione assolutamente impraticabile con i nostri attuali strumenti. Solo grazie a sofisticatissime operazioni si è riusciti a tradurre queste poche righe che riteniamo significative e che qui volentieri riportiamo. Ciò, ancora di più, dimostra come i nostri antichi del XXI secolo abbiano lasciato a noi pochissime testimonianze del proprio passaggio, avendo essi utilizzato strumenti che non hanno avuto la capacità di attraversare il tempo, essendo impegnati nella ricerca spasmodica dell’immaterialità.
Solo la materia bruta ha la capacità di abitare il tempo. Per fortuna, noi del XXXVI secolo lo sappiamo”. [Da una notizia proveniente dal futuro]
Il tempo racchiuso nella terra
“Il passato altro non è che il luogo
delle forme senza forze prigioniere. Spetta a noi
procurargli la vita e la necessità e prestargli
le nostre passioni e i nostri valori”
Paul Valéry
L’azione più importante che un archeologo compie all’interno di un’area archeologica è una distruzione. Una “distruzione ordinata” ma necessaria per liberare quella coltre che il tempo deposita sui manufatti antichi. L’agire dell’archeologo opera in due direzioni: una verticale e l’altra orizzontale ed è, in modo del tutto singolare, analoga dell’agire dello storico. Le due dimensioni esprimono due modi di leggere il tempo impresso sulle cose dell’uomo, l’uno diacronico e l’altro sincronico. Nella realtà dei fatti accade spesso che il tempo interno – così come viene definito da Ilya Prigogine -, o tempo qualitativo, diversamente dal tempo esterno o quantitativo (2), risulta molto più complesso in quanto più livelli cronologici si sovrappongono e si fissano su un medesimo strato.
Ma perché si scava con tanto accanimento e passione nel tentativo di riportare alla luce testimonianze antiche ora sepolte?
Dai dati relativi alla presenza di visitatori all’interno di aree archeologiche più o meno importanti si riscontra un sempre maggior interesse per la fruizione dei siti antichi.
Ciò è determinato da una forte esigenza del mondo contemporaneo di recuperare il fattore temporale come elemento che può imprimere una dimensione qualitativa allo spazio per l’uomo: “Solo se abbiamo la capacità di abitare il tempo, possiamo costruire”, sostiene Umberto Galimberti. Il fattore temporale lo ritroviamo oggettivato soprattutto nelle rovine che la terra racchiude. Marc Augé afferma infatti: “… abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere nella storia.
Questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle rovine.”(3) La conoscenza, quindi, come supporto alla riappropriazione della dimensione temporale, per riconoscersi nella storia e far rivivere il passato: “Le rovine sono al tempo stesso una potente epitome metaforica e una testimonianza tangibile non solo di un defunto mondo antico ma anche di un suo intermittente e ritmico ridestarsi a nuova vita”(4)
Il “ruolo pedagogico” delle rovine, inteso come espressione dell’attuale “ritmico ridestarsi a nuova vita” dei resti antichi, è profondamente diverso dal ruolo eminentemente “estetico” che ha animato tutto il secolo diciannovesimo nei confronti del passato, reso evidente, tra gli altri, da Giacomo Leopardi nelle pagine dello “Zibaldone di pensieri” (5). A questa interpretazione è seguita, nei primi del Novecento, un atteggiamento di tipo “funzionalista” nei confronti dell’archeologia, utilizzata come ammonimento sociale a supporto del potere politico, tramite l’esasperato isolamento di antiche vestigia dal resto della città. A solo titolo di esempio si pensi all’operazione perpetrata con via dei Fori Imperiali e al radicale vuoto creato attorno all’Anfiteatro Flavio o Colosseo.
L’attuale “ruolo pedagogico” delle testimonianze del passato deve essere sostenuto necessariamente dalla interrelazione di due discipline: quella archeologica e quella architettonica, un’interrelazione espressa attraverso i saperi e gli strumenti della museografia. Questo attuale modo di intendere il testo antico, che prende le distanze sia da una lettura puramente estetica che da un ridotto utilitarismo, ha come obiettivo una più profonda attitudine alla conoscenza, che è archeologica e storica assieme.
Questo nuovo approccio culturale ha il preciso intento di dare una forma concreta all’idea di museo diffuso, dove l’esposizione degli oggetti e la loro conservazione sono radicate ai contesti, ai siti in cui essi sono stati prodotti o ritrovati, al fine di realizzare musei in ogni luogo, in una sorta di processo di appropriazione culturale del territorio attraverso l’istituto museale. In questo modo si evita ogni forma di alienazione tra oggetto e contesto, tra il manufatto e l’ambiente in cui è stato prodotto. Si tratta di una lettura del passato secondo un atteggiamento antropologico, il che consente di avvicinare l’antico alla nostra contemporaneità attraverso la vita vissuta.
2) Sul concetto di “tempo interno” e “tempo esterno” si veda il saggio di Andreina Ricci dal titolo “Attorno alla nuda pietra”, Donzelli Editori 2006, pp. 126 e seguenti, nel quale vengono citati gli studi del filosofo matematico Ilya Prigogine “La nascita del tempo”, Theoria, Roma, 1988. Andreina Ricci scrive “In altri termini differentemente dal tempo esterno, della datazione puntuale (che si desume dalla cronologia dell’oggetto più tardo fra quelli rinvenuti in uno strato) e che Prigogine paragona all’età anagrafica di una persona, il tempo interno assomiglia piuttosto all’età che una persona dimostra, prodotta da un groviglio di “elementi temporali” differenti. Ed è proprio in questo miscuglio a rivestire un’importanza centrale nel lavoro dell’archeologo sia alla scala più piccola, quella dell’unità stratigrafica, che a quella più ampia dei sistemi urbani avvicendatisi nel tempo”.
(pp. 131 e 132).
(3) Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati e Boringhieri, Torino, 2003, p. 43
(4) Salvatore Settis, Il futuro del classico, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004, p.84
(5) “L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’animo uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi son confini, non li discerne, e non sa quali siano.” Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, tratto dall’edizione del 1937, Arnoldo Mondadori Editore.
(2), risulta molto più complesso in quanto più livelli cronologici si sovrappongono e si fissano su un medesimo strato.
Ma perché si scava con tanto accanimento e passione nel tentativo di riportare alla luce testimonianze antiche ora sepolte?
Dai dati relativi alla presenza di visitatori all’interno di aree archeologiche più o meno importanti si riscontra un sempre maggior interesse per la fruizione dei siti antichi.
Ciò è determinato da una forte esigenza del mondo contemporaneo di recuperare il fattore temporale come elemento che può imprimere una dimensione qualitativa allo spazio per l’uomo: “Solo se abbiamo la capacità di abitare il tempo, possiamo costruire”, sostiene Umberto Galimberti. Il fattore temporale lo ritroviamo oggettivato soprattutto nelle rovine che la terra racchiude. Marc Augé afferma infatti: “… abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere nella storia.
Questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle rovine.”(3) La conoscenza, quindi, come supporto alla riappropriazione della dimensione temporale, per riconoscersi nella storia e far rivivere il passato: “Le rovine sono al tempo stesso una potente epitome metaforica e una testimonianza tangibile non solo di un defunto mondo antico ma anche di un suo intermittente e ritmico ridestarsi a nuova vita”(4)
Il “ruolo pedagogico” delle rovine, inteso come espressione dell’attuale “ritmico ridestarsi a nuova vita” dei resti antichi, è profondamente diverso dal ruolo eminentemente “estetico” che ha animato tutto il secolo diciannovesimo nei confronti del passato, reso evidente, tra gli altri, da Giacomo Leopardi nelle pagine dello “Zibaldone di pensieri” (5). A questa interpretazione è seguita, nei primi del Novecento, un atteggiamento di tipo “funzionalista” nei confronti dell’archeologia, utilizzata come ammonimento sociale a supporto del potere politico, tramite l’esasperato isolamento di antiche vestigia dal resto della città. A solo titolo di esempio si pensi all’operazione perpetrata con via dei Fori Imperiali e al radicale vuoto creato attorno all’Anfiteatro Flavio o Colosseo.
L’attuale “ruolo pedagogico” delle testimonianze del passato deve essere sostenuto necessariamente dalla interrelazione di due discipline: quella archeologica e quella architettonica, un’interrelazione espressa attraverso i saperi e gli strumenti della museografia. Questo attuale modo di intendere il testo antico, che prende le distanze sia da una lettura puramente estetica che da un ridotto utilitarismo, ha come obiettivo una più profonda attitudine alla conoscenza, che è archeologica e storica assieme.
Questo nuovo approccio culturale ha il preciso intento di dare una forma concreta all’idea di museo diffuso, dove l’esposizione degli oggetti e la loro conservazione sono radicate ai contesti, ai siti in cui essi sono stati prodotti o ritrovati, al fine di realizzare musei in ogni luogo, in una sorta di processo di appropriazione culturale del territorio attraverso l’istituto museale. In questo modo si evita ogni forma di alienazione tra oggetto e contesto, tra il manufatto e l’ambiente in cui è stato prodotto. Si tratta di una lettura del passato secondo un atteggiamento antropologico, il che consente di avvicinare l’antico alla nostra contemporaneità attraverso la vita vissuta.
2) Sul concetto di “tempo interno” e “tempo esterno” si veda il saggio di Andreina Ricci dal titolo “Attorno alla nuda pietra”, Donzelli Editori 2006, pp. 126 e seguenti, nel quale vengono citati gli studi del filosofo matematico Ilya Prigogine “La nascita del tempo”, Theoria, Roma, 1988. Andreina Ricci scrive “In altri termini differentemente dal tempo esterno, della datazione puntuale (che si desume dalla cronologia dell’oggetto più tardo fra quelli rinvenuti in uno strato) e che Prigogine paragona all’età anagrafica di una persona, il tempo interno assomiglia piuttosto all’età che una persona dimostra, prodotta da un groviglio di “elementi temporali” differenti. Ed è proprio in questo miscuglio a rivestire un’importanza centrale nel lavoro dell’archeologo sia alla scala più piccola, quella dell’unità stratigrafica, che a quella più ampia dei sistemi urbani avvicendatisi nel tempo”. (pp. 131 e 132).
(3) Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati e Boringhieri, Torino, 2003, p. 43
(4) Salvatore Settis, Il futuro del classico, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004, p.84
(5) “L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’animo uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi son confini, non li discerne, e non sa quali siano.” Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, tratto dall’edizione del 1937, Arnoldo Mondadori Editore.
Le figure del tempo
- “Spazio e tempo rappresentano
- le forme necessarie della nostra
- istruzione sensibile”
- Friederich Durrenmatt, 1979
Allargando lo sguardo si intende ora verificare il ruolo creativo del fattore temporale o “fattore T”.
Esistono diversi tempi all’interno del fatto artistico e l’agente, colui che opera con immaginazione creativa – quale che sia lo strumento disciplinare utilizzato – ne è inevitabilmente consapevole. In ogni sua opera si assiste ad una oggettivazione concreta del fattore temporale.
Il tempo non esiste, è un’invenzione dell’essere umano che, per poterlo percepire, lo ha misurato. Ha fissato un punto su una linea retta che tende all’infinito. Soltanto misurando un suo segmento è possibile intuirlo. Se voi chiedete ad un ragazzo che cosa siano per lui 50 anni, non è in grado di definirli, mentre se lo chiedete ad un anziano, questi ne ha completa coscienza. Il tempo quindi è un fatto esperienziale.(6)
La stessa cosa si verifica se chiedete ad una persona quanto distano 50 metri. Non lo sa definire, mentre se gli dite che 50 metri è la lunghezza del condominio dove abita allora tutto si chiarisce e si risolve e lo può misurare con i passi ogni volta che esce di casa. Anche lo spazio, quindi, è esperienza.
Noi siamo immersi nella dimensione spazio-temporale senza averne piena coscienza, un’inconsapevole e collettiva “istruzione sensibile”.
In natura esiste solo un tipo di Tempo: il Tempo ciclico, l’eterno ritorno, le stagioni che si rincorrono, il giorno che segue alla notte, la morte alla vita, e così via. La figura che lo rappresenta è una sinusoide proiettata all’infinito.
Come si è detto in precedenza, esiste un Tempo esterno e un Tempo interno, vale a dire uno quantitativo e uno qualitativo, un Tempo cronologico e uno storico. (7)
Talvolta ne percepiamo l’essenza attraverso l’agire dell’artista che “fotografa”, come in un’istantanea, le figure nascoste di questa “danza delle cose nel Tempo”.
Nella disciplina dell’architettura possiamo efficacemente individuare tre tipi di figure archetipiche o paradigmatiche:
il Tempo come palinsesto, come stratificazione
il Tempo come sequenza, come narrazione
il Tempo come durata, come sfida, tra caducità
e «perpetuità».
In questo contributo si dà maggiore credito alla prima figura archetipica individuata nel palinsesto, in quanto è quella che ha maggiori e più forti attinenze comuni tra le varie discipline artistiche.
“… I frammenti antichi sono storie parzialmente cancellate, o residui di storia casualmente sfuggiti al naufragio del tempo …”, cosi affermava Francis Bacon in «De dignitate et augmendis scientiarum», del 1623.
La casualità di tale naufragio produce resti orfani, privati della loro totalità materna, non più intuibile. L’agire dell’artista consiste, per l’appunto, nel ridare senso a questi resti che riprendono vita nella loro nuova configurazione, senza perdere il proprio carattere di frammento.
Victor Hugo in «Notre Dame de Paris» (1904) afferma che la storia è “… lo strato che formano i secoli, il residuo delle evaporazioni successive della società umana, in una parola, una specie di formazione geologica …”.
Lavorare strato su strato, velando e sovrapponendo materia su materia, è atto creativo analogo all’agire del tempo, per ‘evaporazioni successive’. Lo strato precedente informa e influisce sul seguente, non ne cancella la presenza, ma ne modifica la consistenza, entrando in risonanza e producendo qualche cosa di nuovo ed inaspettato.
Esiste un ulteriore atteggiamento, che consiste nel negare l’interferenza del tempo. L’agire è finalizzato alla produzione di opere senza tempo, o meglio di un tempo sospeso. Si pensi, ad esempio, alla ricerca e al lavoro dell’architetto Aldo Rossi (1931 – 1997) nella seconda metà del Novecento, in stretta sintonia con quanto indagato alcuni anni prima da Giorgio De Chirico (1888 – 1978).
Allargando lo sguardo si può affermare che esiste anche un tempo dell’opera d’arte, il tempo necessario per la sua produzione. è un segmento che può assumere dimensioni diverse: un tempo breve oppure lunghissimo, come ad esempio nel caso di opere mai portate a compimento.
Si pensi alla Pietà Rondanini di Michelangelo iniziata nel 1552, nella sua prima versione, successivamente rielaborata dal 1555 al 1564, e mai terminata, opera recentemente riallestita all’interno del Castello Sforzesco a Milano (2015).
Il “non finito” può assumere talvolta un valore estetico estremamente importante diventando esso stesso motivo di sviluppi interessanti in altri contesti e/o in altri tempi. L’opera, una volta terminata, affronta in modo solitario l’azione inesorabile del tempo, che lentamente ne altera l’aspetto e la consistenza mettendo a dura prova la sua capacità di durata. (8)
(6) Kant scrive “Il tempo non è qualche cosa che esiste per sé stesso, ma è la condizione soggettiva sotto la quale tutte le percezioni possono verificarsi” o, come afferma Agostino, “è un prodotto dell’attività del soggetto”. Su questi temi si veda Vittorio Gregotti, Tempo e progetto, Skira Editore, Milano, 2020, pag. 9. Nella stessa pubblicazione si rimanda all’esauriente bibliografia riportata alle pagine 92–94.
(7) Sulle definizioni di tempo esterno e tempo interno si fa riferimento di nuovo (vedi nota 2) al saggio di Ilya Prigogine, La nascita del tempo, Theoria, Roma, 1988, in cui si chiarisce, esemplificando, che il primo è l’età anagrafica di una persona, il secondo è quanti anni essa dimostra.
(8) “Dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un certo senso, la sua vita. Superata la prima fase, che, per l’opera dello scultore, l’ha condotta dal blocco alla forma umana; ora una seconda fase, nel corso dei secoli, attraverso un alternarsi di adorazione, di ammirazione, di amore, di spregio o di indifferenza, per gradi successivi di erosione e di usura, la ricondurrà a poco a poco allo stato di minerale informe a cui l’aveva sottratta lo scultore.”
- Yourcenar, Il Tempo, grande scultore, Einaudi editore, 2005
Cortocircuiti
“La poesia è poesia
quando porta in sé un segreto”
Giuseppe Ungaretti 1961
Sulla ricerca del fattore “T” all’interno dell’agire comune tra la disciplina pittorica e quella architettonica, ci si è confrontati in occasione di un’importante opera di sistemazione all’interno del Duomo di Venzone.
Si tratta del riallestimento della teca che contiene il gruppo scultoreo in legno di tiglio denominato Compianto sul Cristo morto – probabilmente una delle opera più importanti custodite all’interno della chiesa – realizzata tra il 1514 e il 1521 da Giovanpietro da Mure, intagliatore.
Il Duomo di Venzone, completamente ricostruito pietra su pietra dopo la sua distruzione a seguito degli eventi sismici del 1976, è la sede ideale per poter agire a diretto contatto con la sostanza del tempo nelle sue diverse declinazioni. Esso è il luogo nel quale la comunità, sebbene ampiamente secolarizzata come quella attuale, riconosce un diverso ‘senso del tempo’. La ricomposizione della fabbrica distrutta da un evento naturale è la concreta dimostrazione che è possibile vivere la continuità di una comunità nel fluire del tempo storico, pregna dei valori ancorati al passato e, al contempo, in lenta evoluzione, puntualmente registrati dalle pietre e dai manufatti ivi custoditi.
Il terremoto non è riuscito ad obliterare il tempo della fabbrica, infatti gli eventi tragici di maggio, e poi del settembre 1976, hanno costituito solo una parentesi dolorosa, tuttavia una parentesi significativa nella lunga linea cronologica scandita da momenti o tappe riconoscibili finanche nel sottosuolo, in cui sono custodite preziose tracce e resti archeologici che parlano ancora di questa caparbia vocazione alla continuità.
Questa sorta di senso del ‘tempo altro’ – che è diverso e va ben oltre il nostro senso comune di un tempo frazionato, fatto di frenetica quotidianità – può esprimersi solo in determinate circostanze ed in determinati luoghi. Lo spazio sacro del Duomo rappresenta il segno tangibile di un tempo lungo, nella continuità dei valori che vince su fratture e lacerazioni.
Nella fase di studio preliminare al progetto di ri-allestimento del gruppo scultoreo cinquecentesco si è agito in modo multidisciplinare avendo sempre la consapevolezza di lavorare con un’opera ricca di elementi incogniti. La storica Claudia Palazzetti ha compiuto un importante lavoro di indagine sull’opera che le ha permesso di scoprire l’autore e la prima collocazione dell’opera. Da questo studio, infatti, si è potuto individuare nella potente Arciconfraternita di Santa Maria del Gonfalone i committenti della pregevole opera, e nella chiesa di Santa Maria dei Battuti – poi denominata Santa Chiara presso il ponte sul fiume Venzonassa – la sua prima collocazione. (9)
La ricerca documentale ha dato la possibilità di capire dove e come l’opera d’arte poteva essere collocata in origine. Si è scoperto, infatti, che il gruppo scultoreo era probabilmente custodito all’interno di un Flugel Altar con portelle dipinte dal celebre Giovanni Antonio de’ Sacchis – detto il Pordenone, allievo di Raffaello – portelle che vennero smantellate dall’assetto originale e poi vendute presso i mercati di antiquariato a Venezia.
L’immagine dell’altare con le ali ha condizionato il progetto della nuova teca, che interpreta in modo evocativo il tema del velare e dello svelare, un’azione discreta per rendere una presenza “regolabile” all’interno dello spazio cultuale. Tutto questo nel 2009. Più recentemente, nel 2019, il pittore friulano Renzo Marzona ha affrontato il non facile compito di completare la teca lignea con un fondale che facesse da degno contrappunto al gruppo scultoreo cinquecentesco attraverso un linguaggio che parlasse della nostra contemporaneità. Marzona ha saputo dare un’efficace risposta attraverso un’interpretazione in linea con la sua ricerca personale, sapendosi anche acclimatare nell’elegante cromatismo delle sculture cinquecentesche.
In sostanza, si è operato una sorta di corto circuito capace di colmare una distanza temporale di 500 anni attraverso l’atto artistico. Quando il pittore Marzona stendeva il colore strato su strato, realizzando un ricco e vibrante palinsesto di materia, si poteva immaginare in quello stesso istante il Pordenone che dipingeva le portelle della precedente teca.
A conclusione di quest’opera di ri-allestimento sarebbe interessante proporre, in occasione di un evento circostanziato cronologicamente, nel tempo di una serata, la proiezione dell’immagine dell’affresco trecentesco – andato completamente distrutto con il terremoto del 1976 – sulle superfici delle volte ricostruite della Cappella del Gonfalone.
Un caleidoscopio temporale dove dialogano assieme il gruppo scultoreo del Compianto sul Cristo morto, la nuova Teca, il frammento dell’altare seicentesco, l’immagine dell’affresco proiettato, la ricostruzione della cappella. Un fatto immateriale, capace di generare un evento concreto e temporaneo. In quei precisi momenti si potrebbe formare, all’interno della cappella, un piccolo microcosmo dove il tempo diventa l’assoluto protagonista.
Contaminazioni? Forse. Di certo azioni che sono il frutto dell’inevitabile azione della contemporaneità che si confronta con la profondità del tempo.
9) C. Palazzetti, Rovinosi fantasmi. La ritrovata identità del Compianto ligneo di Venzone e delle perdute portelle per l’altare dei Battuti dipinte dal Pordenone, «Bollettino dell’Associazione Amici di Venzone», XXVIII, XIX 28-29, 2006
Al tema Contaminazioni è dedicato un portfolio che contiene sia foto di Sandro Pittini che scatti fotografici di giovani artisti friulani. il link per visionare il materiale fotografico è il seguente:
www. blognotesitalia.it (in costruzione)
Sandro Pittini
Sandro Pittini (1964). Nel 1989 si laurea in architettura presso lo IUAV di Venezia. Nel 1998 è Dottore di Ricerca in Composizione Architettonica. Dal 2003 è Docente a contratto in Composizione Architettonica e Allestimento e Museografia presso varie Università Italiane. Nel 2019 è stato visiting professor presso l’ENSA di Parigi. è docente ai corsi di Master post laurea a Bologna e Roma. Ha tenuto lezioni presso diverse Scuole di Architettura europee. Dal 1990 svolge attività di architetto. Suoi lavori sono stati pubblicati nelle principali riviste specializzate. Ha esposto alla XIV Biennale di Architettura di Venezia. Ha ricevuto il premio INARCH 2023 regione Friuli Venezia Giulia. Campo privilegiato di ricerca consiste nel portare a soluzione il rapporto tra progetto di Architettura e contesti storici consolidati.
Sandro Pittini
Sandro Pittini (1964). Nel 1989 si laurea in architettura presso lo IUAV di Venezia. Nel 1998 è Dottore di Ricerca
in Composizione Architettonica. Dal 2003 è Docente a contratto in Composizione Architettonica e Allestimento
e Museografa presso varie Università Italiane. Nel 2019 è stato visiting professor presso l’ENSA di Parigi. È docente ai corsi di Master post laurea a Bologna e Roma. Ha tenuto lezioni presso diverse Scuole di Architettura europee. Dal 1990 svolge attività di architetto. Suoi lavori sono stati pubblicati nelle principali riviste specializzate.
Ha esposto alla XIV Biennale di Architettura di Venezia. Ha ricevuto il premio INARCH 2023 regione Friuli Venezia
Giulia. Campo privilegiato di ricerca consiste nel portare a soluzione il rapporto tra progetto di Architettura e contesti
storici consolidati.
Indice
- Il naufragio del tempo Nov/Dic 2023. il tema del numero 2 di Approfondimenti è...