Non sappiamo più aspettare. La velocità a cui ci abituano i nostri dispositivi è allucinante,
certamente utile alla vita pratica ma forse inaspettatamente dannosa per la nostra interiorità.
D’altra parte viviamo nell’età della tecnica, secondo la definizione del filosofo M. Heidegger,
e a dominare la nostra realtà è ora più che mai il concetto di “utilità”, che diventa il discrimine
fondamentale per conferire o sottrarre valore alle cose, tanto che, appunto, accecati
dall’ammaliante rapidità ed efficienza della tecnologia, ignoriamo l’effetto che essa ha su di
noi e compromettiamo tutto ciò che nella nostra esistenza non è “utile”, ma vitale.
Questo meccanismo trova la sua più tragica applicazione nell’ambito delle relazioni, che si
rivelano fugaci e deludenti proprio a causa della nostra impazienza, una fretta di conoscere,
di possedere, ma forse, più d'ogni altra cosa, una fretta di esistere grazie allo sguardo
dell’altro.
Essa si nutre di aspettative e si tramuta in delusione, non tanto per le mancanze altrui,
quanto per una nostra incapacità di aspettare, di dare tempo alla bellezza di rivelarsi e di
farsi apprezzare.
Non solo non siamo più abituati all’attesa, ma siamo sempre più distanti dalla realtà, perché i
social ci distraggono dalle imperfezioni, attraverso la rappresentazione di una realtà artefatta
ma attraente, che lima le diversità e mira ad appiattirci allo standard di normalità da lei
imposto.
Ormai pensiamo che la bellezza sia perfezione e tendiamo a fuggire da tutto ciò che è
autentico e per sua natura più complesso.
Sono eventi improvvisi, come una malattia, che ci costringono a restare, a fermarci proprio
dove fa male, anche quando vorremmo solo correre via.
In ospedale, per esempio, il tempo scorre sotto il peso di emozioni grandi e profonde, sotto
sogni e paure che ci chiedono di rimanere dove siamo e di iniziare ad ascoltare.
La tecnologia, al contrario, e i social in particolare, offrono soluzioni immediate e ci
risparmiano lo sforzo di provare a capire, di problematizzare una questione prima di
etichettarla come assolutamente positiva o negativa.
Nelle relazioni tutto ciò ha un grande riscontro, perché ci aspettiamo di poter inquadrare
subito una persona e proiettiamo immediatamente su di lei tutti i nostri desideri, i nostri
bisogni e soprattutto le pesanti aspettative che ci siamo involontariamente creati. Quando
poi le nostre idee di perfezione si scontrano con la realtà concreta del mondo, alla quale non
potremo mai sfuggire, tutto l’idilliaco “castello di fantasticherie” che ci siamo creati crolla
rovinosamente e ci lascia atterriti, orfani delle comode illusioni in cui ci siamo rifugiati
all’inizio. Esiste quindi un contrasto asprissimo tra il mondo reale, a cui siamo costantemente
chiamati, e la forma mentis a cui ci sta abituando la tecnologia, che confonde specialmente
le nuove generazioni, nate in un’epoca di caos e mutamenti.
Noi giovani percepiamo queste contraddizioni e siamo vittime inconsapevoli di un sistema
opprimente e pericoloso, ma, se siamo fortunati, possiamo ancora godere di relazioni vere,
nelle quali essere autentici e apprezzare la complessità dell’altro.
Quelle relazioni sono aria fresca e nutrimento per la mia vitalità grazie alla loro capacità di
connettersi ad una parte inconscia, quasi primitiva, della mia psiche, una dimensione che la
tecnologia non può che danneggiare.
Solo i rapporti autentici, che siano di amicizia o d’amore, hanno la speciale capacità di
risvegliare gli animi e di dar loro calma allo stesso tempo, un'apparente contraddizione che
nasconde il segreto della felicità. Stare con le persone giuste significa tornare a casa dopo
anni di viaggio, è arrivare a Itaca e ritrovare testimonianze di sé negli altri.
Sopra ogni cosa, però, significa condividere la propria autenticità con chi la può valorizzare,
e accogliere l’altro per ciò che realmente è, senza porgli addosso aspettative dannose e
irrealistiche.
Per me tanti di quei rapporti sono nati proprio durante il mio limbo, in ospedale, quando la
lentezza della quotidianità mi ha consentito di ascoltare un po’ più a fondo sia me che gli altri
e di provare a capire. Così, in quelle sere invernali, seduta al tavolo del reparto, ho scoperto
che si può essere tanto profondi e altrettanto leggeri insieme, e ci si può ritrovare nello
sguardo di un perfetto sconosciuto che per qualche ragione sembra tanto familiare. Lì, sotto
le luci brillanti dei corridoi, mi sono accorta che la mia fragilità non mi sarebbe più pesata
così tanto se fossimo rimasti insieme, e in fondo è stato proprio così.
Noi abbiamo avuto la possibilità di guardarci, di scoprire lentamente la nostra unicità, proprio
tramite quella pazienza che dobbiamo tutelare dalla pericolosa velocità della tecnologia.
La bellezza della relazione esiste ancora, ovunque, ha solo bisogno di noi.
Indice
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