Leggere il racconto di Nella Macarrone mi ha commosso. Però di quella commozione, semplice e nascosta, inavvertita e pudica, che ti assale quando vieni dolcemente travolto dal ricordo della tua infanzia. Ed è stata una parola magica a scatenare tutto questo. La parola “spargher”, che i miei chiamavano anche “spacher”. La parola forse veniva da una tradizione austriaca e si scriveva “spacker” o “semplicemente “spaker”, ma nella mia – italianissima – infanzia di via Mascagni,Trieste, nelle case e nella scuola dei profughi istriani, la “kappa” non esisteva, forse perchè retaggio dell’autarchia culturale di un tempo appena precedente. Ma lo spargher (o spacher, le due parole, a casa mia, erano intercambiabili) era la nostra salvezza, non solo per cucinare, ma sopratutto per scaldarci.

La nostra casa era un piccolo appartamento popolare, in una serie di sette case uguali, costruite dagli americani per ospitare profughi istriani. Ci eravamo entrati nel 1954, appena usciti dal “silos”, accanto alla stazione ferroviaria di Trieste, poco prima che ad americani e inglesi subentrasse l’Italia. Era un appartamento al terzo piano esposto a nordest, e davanti, fino al crinale carsico e al castello di San Servolo, molti chilometri più in là, non c’era niente. E quindi diventava il regno incontrastato della bora, che proveniva, presagio sinistro, proprio dalla Yugoslavia.
Anche della bora più brutale, quella freddissima a 150 km all’ora, o quella detta “scura” che, con pioggia o neve, gelava tutto. E ho un ricordo vivido, quello dell’inverno del 1956, sì proprio quello della canzone di Mia Martini “La nevicata del ‘56”, inverno che doveva aver colpito non solo Trieste, ma anche molta parte d’Italia.
Il gelo in casa era implacabile e vivevamo con due cappotti addosso, rifugiati in un piccolo cucinino con al centro proprio lo spargher, mentre nella sala da pranzo, da cui ci separavano due improvvisati pannelli di “faesite”, una specie di compensato fatto da trucioli di legno, la neve, spinta dalla bora, entrava dalle imposte del terrazzo fin sotto la tavola formando tre lunghe righe bianche in corrispondenza delle fessure. E in fondo, pur nel freddo terribile, per un bambino di sei anni, era anche un gioco divertente avere la neve dentro casa.
Molti anni dopo, ho saputo che in quei giorni, nel campo profughi di Padriciano, a non molti chilometri da noi, era morto di freddo un bambino di pochi mesi. Ma anche le parole “hvala”, “dobro” e “nasvidenje” che io però ricordo come “dasvidenje”, nel contesto dello scritto di Nella, hanno risvegliato in me un ricordo struggente. Erano le parole che usava la “juza” o “juzza” (l’istroveneto, normalmente avaro di doppie, qui invece le sprecava).
La juzza era una donna che puntualmente arrivava ogni mattina alle otto con un grande zaino d’alluminio pieno di latte e un mestolo della giusta misura per versarlo nella nostra pentola, che poi mia madre faceva rigorosamente bollire “per evitare malattie”
Non so da dove provenisse la juzza, se dal vicino carso divenuto italiano, ma abitato da sloveni, o direttamente dalla Yugoslavia, ma per me rappresentava quasi una di famiglia, una “istituzione” della mia infanzia. Sull’onda dei ricordi scatenati da quel racconto potrei raccontare molte altre cose, ma ne racconterò ancora solo una, piccola, però molto significativa per me.
Mia nonna, la madre di mia madre, in quegli anni viveva con noi in quel minuscolo appartamento. La loro famiglia proveniva da Oscurus, una piccola frazione di Momiano, nel comune di Buie d’Istria, ora Croazia. Si racconta che mio nonno, che parlava istroveneto ed era una persona importante nel paese, andasse sempre a ballare nel vicino paese detto Collalto, secondo la dizione fascista, ma che invece per gli slavi che vi abitavano si chiamava Brda, che vuol dire, penso, proprio “collina”. E li ha trovato mia nonna, “la più bella del paese”, che credo avesse 15 anni, mentre lui era sulla trentina. Se l’è portata a casa e se l’è sposata facendo insieme a lei molti figli, di cui 9 sopravvissuti fino all’età adulta. Ma si racconta che appena hanno potuto affidare gli altri figli alla figlia più grande, la mitica “zia Angelina”, mio nonno ha continuato a portare la nonna a ballare a Brda. Mia nonna quindi era slava, e parlava in origine quella lingua mescolata di sloveno, croato e istroveneto, che era tipica di quella zona che anche oggi segna il confine tra la Slovenia e la Croazia. E ricordo che, quando abitava con noi a Trieste, a volte mia nonna usava con mia madre delle frasi slave per non farsi capire da me. La più tipica di queste frasi, quella che mi è rimasta, era “pustiga sto” (non so se la dizione è corretta, ma così mi è rimasta) che lei usava quando mia madre mi picchiava, come al tempo si usava, e voleva dire “làssilo star”, “lascialo stare”, e sicuramente anche per questo volevo bene a mia nonna in quel periodo. Nel racconto poi ho trovato un altro stimolo. Nell’”italianissima” Trieste degli istriani di quel tempo, lo sloveno, come detto nel racconto di Nella, non era ben visto, e mia nonna aveva imparato, forse da sempre, a parlarlo in casa il meno possibile, tanto che anche mia madre non ne conosceva che poche parole.
Ed è per questo che, pur vivendo nell’infanzia con una nonna slava, non l’ho imparato, e divenuto da grande “cittadino del mondo”, sono costretto anch’io, con mio grande rammarico, a parlare con gli sloveni in inglese.
Ho raccontato un po’ di questa storia in una mia canzone pubblicata con Anastasija, la mia attuale partner musicale, canzone chiamata “Valmaura blues (I ragazzi di via Mascagni)”.
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