Quando, nei primi anni ottanta, assolsi i miei obblighi di leva, fui assegnato ad un reparto del quale la quasi totalità dei componenti arrivavano dalle regioni dell’Italia settentrionale e centrale. Rari i friulani. Da Gorizia ero l’unico.
La curiosità dei commilitoni nei confronti della città dalla quale arrivavo era alta.
L’essere così estremamente periferica e la presenza del confine con un mondo che, all’epoca, era percepito come lontano e misterioso, separato da una “cortina di ferro”, rendeva esotica l’immagine di Gorizia.
Alla solita, banale e scontata, domanda se per venire a visitare Gorizia dal resto d’Italia ci volesse il passaporto – che mi veniva posta con convinzione e senza ironia – cercavo di rispondere raccontando della felice e unica complessità di un luogo dove tre culture, italiana, slava, germanica, e quattro lingue, friulano, italiano, sloveno, tedesco, si incontravano, mescolavano, convivevano. Senza contare il fatto che i vecchi goriziani, mia nonna ad esempio, aveva fatto in tempo nel corso della sua vita a vivere sotto cinque bandiere nazionali diverse senza muoversi da casa.
Per esemplificare facevo notare come l’estremo lembo orientale delle Alpi, corrispondente al territorio della mia città, fosse anche il valico di più bassa quota e agevolmente transitabile, fin dai tempi antichi. Quella che i militari avevano chiamato “ la soglia di Gorizia”. Da quel passaggio nei secoli erano transitati tutti coloro, popoli e viaggiatori, che dall’est erano calati in Italia. Ed ognuno aveva preso qualcosa e qualcosa aveva lasciato, usi, costumi, parole, prodotti.
Il riscontro più banale si può notare nei menù delle famiglie goriziane dove il pranzo domenicale tradizionale è lo stesso che ritroviamo sulla tavola della famiglia Trotta nel romanzo di Joseph Roth “Radetzkymarsch” (La marcia di Radetzky) – gnocchetti di gries in brodo, lesso con crauti e patate in tecia, kugelhupf -, dove il gulasch, stretto parente di quello ungherese, sta accanto agli slavi strudel bolliti, al friulano radicio, fasoi e frizze, agli gnocchi di patate con ripieno di confettura o, in stagione, di susine.Proprio questi ultimi per il fatto che fossero un primo e non un dolce incuriosivano e sconcertavano i miei commilitoni. La loro difficoltà a capire un piatto, un gusto, si sposava con quella di comprendere il carattere di una città, di una terra, così variegata, complessa, tormentata. Oltre, certamente, con la mia giovanile inadeguatezza a illustrare compiutamente queste peculiarità.
Più tardi è stata la passione per la montagna che mi ha offerto altre chiavi di lettura del carattere di una città che con il mondo alpino ha sempre avuto un legame molto stretto. Chiavi di lettura che passano attraverso una serie di figure emblematiche.
Valentin Stanic (o Stanig nella grafia antica), prete sloveno del goriziano tra Settecento e Ottocento, primo salitore, e in solitaria, della montagna più alta della Germania, il Watzmann. Monaco di Baviera gli ha dedicato una piazza centrale. Gorizia, ingrata, un piccolo e nascosto parcheggio. Oltre ad aver salito, in anni in cui l’alpinismo era ancora di là da venire, le principali cime delle Alpi Giulie tanto da venir considerato il “primo alpinista per amore”, Stanic è stato anche e soprattutto un prete illuminato e benefattore. Fautore dell’istruzione dei poveri contadini dei monti attorno alla città e fondatore, a Gorizia, del primo istituto scolastico per bambini sordomuti d’Europa, così come della prima società per la protezione degli animali.

Julius Kugy, nato a Gorizia, dieci anni dopo la morte di Stanic, da padre carinziano e madre slovena, figlia del poeta Vessel. Alpinista di fine Ottocento, scrittore, musicista, si accompagna indifferentemente a guide friulane e slovene con le quali sale le vette delle Alpi Giulie e Carniche, e di quei monti diventa il poeta, il cantore. Le sue opere letterarie sono tutt’oggi inni alla montagna e alla fratellanza alpina e sono lette e apprezzate in tutta L’Europa.
In parte dalle montagne passa anche la vicenda di quei tre amici, uno dei quali, Carlo Michelstaedter, è forse oggi il goriziano più noto al di fuori dei confini cittadini.
Carlo Michelstaedter di famiglia ebraica, Enrico Mreule di madrelingua slovena – che Claudio Magris ha raccontato in “Un altro mare” – e Giovanni “Nino” Paternolli, studenti dello Staatgymnasium, discutono in greco antico di Platone e delle sinfonie di Beethoven, indifferentemente, nella soffitta della casa di Nino nella piazza principale di Gorizia, o salendo il monte Sabotino.
Michelstaedter si tolse la vita nel 1910, a 23 anni, subito dopo aver terminato di scrivere quella che avrebbe dovuto essere la sua tesi di laurea. Mreule un anno prima si era imbarcato per l’Argentina e si era isolato in Patagonia a fare il gaucho con la sola compagnia di pochi volumi di poeti e filosofi greci. Paternolli, passata la furia della prima guerra mondiale, prese in mano le redini dell’attività di famiglia, l’editoria, grazie alla sua personalità, raccolse attorno a se una cerchi di amici, intellettuali, artisti che riuscirono a creare, in una città ancora pesantemente segnata dalle distruzioni della guerra, un clima fecondo e vivace. Significativa è l’edizione italiana della raccolta di studi su Dante curata da Alojzij Res, voluta proprio da Paternolli. Studi di illustri intellettuali italiani e sloveni tra i quali Gaetano Salvemini, Benedetto Croce, Oton Župančič, Josip Puntar e altri. Come importante fu la serie di conferenze sulla nuova letteratura italiana tenute da Piero Gobetti nel dicembre 1922, invitato in città proprio da quel gruppo di amici stretto attorno a Paternolli, tra i quali Biagio Marin e Ervino Pocar.

In una di quelle giornate il giovane intellettuale torinese fu accompagnato sul Sabotino e, guardando la città dall’alto, scrisse della necessità “di assimilarvi tutta la cultura italiana per continuare ad elaborare serenamente accanto alle culture straniere che qui coesistono, quasi ad ammonire l’esigenza di una superiore dignità umana”.
Purtroppo quella “perplessità dell’alba”, quella nostalgia coltivata al posto della “tranquilla acutezza operosa” era il segno di una consapevolezza del momento, di tempi storici che stavano virando al male, sfruttando al negativo ogni slancio. Un nuovo ordine si andava imponendo nel Regno d’Italia e le terre appena redente per prime fecero da cavia. Per sovrappiù nell’agosto 1923 Nino Paternolli cadde durante un’escursione in montagna davanti agli occhi dell’amico Ervino Pocar.

Questa tragedia segnò la fine di quella stagione di speranza. Il cenacolo di intellettuali si disperse e Gorizia piombò in un’apatia dalla quale, pur passati cent’anni, fa fatica a riprendersi. Pur con la lungimirante e, per certi versi, eroica buona volontà di pochi ma felici poeti, studiosi, politici che con le loro azioni e opere hanno contribuito a smantellare, pietra dopo pietra, quel muro di isolamento e diffidenza, per non dire d’odio, che si era eretto dalla prima e ben dopo la seconda guerra mondiale.
Per ritornare, con le parole del poeta Celso Macor – alpinista goriziano a sua volta – a “terra creata perché non avesse confini” e allo straordinario risultato di Nova Gorica- Gorizia Capitale europea della Cultura 2025.
Sono passati più di quarant’anni dal mio servizio militare ma, ancora oggi, quando mi capita di parlare della mia città con amici di fuori o occasionali turisti che per strada mi chiedono informazioni, ho difficoltà a riassumere la complessità del territorio goriziano. Mi è più facile consigliare dei libri, letture che possono accompagnare su sentieri che, nel loro intrecciarsi, portano su creste e vette lontane dalle quali gli sguardi spaziano su orizzonti inaspettati. Ma, egualmente, volgendo l’attenzione alle spalle danno modo di osservare con distacco e nella completezza il territorio che si è percorso, scoprendone nuovi sorprendenti significati.

Bibliografia:
Julius Kugy – Dalla vita di un alpinista – ed. Tamari, Bologna, 1967
Scipio Slataper – Il mio Carso – Editori Riuniti, Roma, 1982
Claudio Magris – Un altro mare – ed. Garzanti, Milano, 1991
Celso Macor – Ervino Pocar – Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1996
Roberto Joos – L’albergo sul confine – Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 1997
Luca Matteusich – Nino Paternolli biografia – B&V Editori, Gorizia, 1999
Pierpaolo Luzzatto Fegiz – Lettere da Zabodaski Ricordi di un borghese mitteleuropeo 1900 – 1984 – ed. MGS Press, Trieste, 2002
Renato Ferrari – Il gelso dei Fabiani – ed. MGS Press, Trieste, 2013
Anna Cecchini – Lyduska La vita tra due mondi della contessa di Salcano – ed MGS Press, Trieste, 2020
Adriano Sofri – Il martire fascista – ed. Sellerio, Palermo, 2020
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