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L’attesa di Pomponio Amalteo

Giuseppe Marini
L’attesa di Pomponio Amalteo

           La ricostruzione di un centro storico

            Da principio mi era sembrato utile proporre una riflessione sullo svanire dell’attesa di una ricostruzione «giusta» del Friuli terremotato, e in special modo del centro storico di Gemona, e di segnalarne i momenti critici e le occasioni perdute. Occasioni e possibilità reali? Nel 1976 – avevo soltanto trent’anni – non mi era chiaro che un terremoto non è il fuoco purificatore che distruggendo la vecchia città crea le premesse di una nuova polis. La riedificazione dopo un sisma non migliora di per sé il preesistente. Al contrario si mostra spesso, e brutalmente, un incubo urbanistico per chiunque, accingendosi a progettarla, studi le stratificazioni edilizie secolari di un centro storico come Gemona. La ricostruzione, lungi dal lasciare libero corso a un processo di rinnovamento, sovente rafforza – se non inventa addirittura – il rimpianto per il luogo perduto. Un sentimento che resiste caparbiamente a qualsiasi innovazione, e vuole quel luogo rifatto «com’era e dov’era», quasi che il tempo potesse fermarsi, e si potesse erigere un argine al disincanto della modernità.
            Un argine immaginario che la forza delle cose, non sempre virtuosa ma sempre paziente e insistente, aggira e supera con varchi, deviazioni e passaggi inaspettati. E che insinua e fa prevalere sulla volontà solidale di ricomporre la polis (ahimè di breve durata) il sempiterno impulso egoistico del privato cittadino, al quale la cattiva politica – quella che cammina di pari passo con il sentire ele-mentare della «folla» – si adegua passivamente.

La piana di Gemona anni sessanta. Archivio storico


            In ogni modo, le occasioni perdute, vere o immaginarie, non ritornano. Perciò qui dirò solo di un centro storico dalla capacità insediativa di 3200 abitanti, e che ne ospitava prima del 1976 soltanto 1601, e della necessità conseguente di assegnare «[…]ai Comuni la facoltà di ricollocare i sinistrati secondo una concreta politica di riconcentrazione urbana: soprattutto i non proprietari, che non essendo legati a un patrimonio perduto, avrebbero potuto più liberamente utilizzare il contributo finanziario loro spettante per l’acquisto di un’abitazione ubicata nella aree centrali»[1].
            Fu fin troppo facile allora alla Democrazia Cristiana, e anche alla sinistra, obiettare che ciò avrebbe limitato la “libertà” dei privati. Ha scritto Giovanni Pietro Nimis che, approvato dal Consiglio comunale di Gemona un piano particolareggiato di ricostruzione del centro che perseguiva la logica della ricostruzione integrale, dell’intervento pubblico e delle facilitazioni ai privati che volessero insediarsi ex-novo, dal 1983 in avanti invece «[…] programmare interventi edilizi a prescindere dai disegni regolativi resterà un esercizio incessante da parte dei cittadini, e non solo a Gemona, finché a trasformare il territorio continuerà, di fatto, a essere solo l’iniziativa privata»[2].

La piana di Gemona oggi. Sei di Gemona se…


            Al rilievo, avanzato in Consiglio comunale, che permettere di edificare a chiunque e dovunque avrebbe compromesso il ripopolamento del centro storico, un esponente autorevole del partito di maggioranza replicò, con tipica logica da imprenditore edilizio: «Intanto ricostruiamo le case, la gente arriverà… ». Restò senza risposta una serie di interrogativi. A re-insediarsi nel centro storico sarebbero stati quei cittadini che già vi abitavano, ma che intendevano fruire dei contributi per spostarsi altrove? O i non proprietari che volevano costruire la propria casetta in piena campagna, a seguito all’estensione delle aree edificabili? Ci avrebbe pensato la divina provvidenza, allora, a condurvi un migliaio di nuovi residenti?
            Fatto gli è che quell’amministratore dava voce anche al diffuso rifiuto dei sinistrati di ogni vincolo alla ricostruzione privata; ripulsa elementare ed egoistica che nessuna forza politica regionale contrastò, e che anzi assecondò senza scrupoli, pensosa soltanto del consenso elettorale. E il 13 dicembre 1979, in un’assemblea coi gemonesi non proprietari, il progettista Nimis, che prospettava i vantaggi degli interventi pubblici di ricostruzione che il Comune era sul punto di avviare, e le opportunità insediative che presentavano, si sentì obiettare: «E jo varessio di lâ a stâ in condominio?»[3].        

Il soffitto di Amalteo e la sua disposizione originaria

Ricomposizione del soffitto di Amalteo com’era nel 1976. A cura del Comitato di S. Giovanni

            Quel che è accaduto poi – la caotica riedificazione della piana di Gemona e i conseguenti maggiori costi di organizzazione e gestione del territorio – è irreversibile, ed è inutile dirne di più. Proporrò invece al lettore un’ aspettativa che ancora non è rientrata nella categoria «cosa fatta capo ha». Intendo l’attesa del ritorno alla fruizione pubblica del soffitto di Pomponio Amalteo della chiesa di S. Giovanni di Gemona, ricomposto in uno spazio che gli renda giustizia. Da quarant’anni e più quei dipinti – nel loro insieme una delle maggiori opere d’arte del Rinascimento friulano – giacciono infatti nei magazzini comunali della città. Per capire le cause e la natura di questo scandalo della cultura italiana, cresciuto nell’indifferenza generale, gioverà qualche nota storica.
            I quarantadue dipinti a tempera, del 1533, di Pomponio Amalteo, genero del grande Pordenone, costituivano il soffitto della chiesa di S. Giovanni [figg. 3-5]. La loro disposizione, rimasta immutata nel corso di più di tre secoli, venne modificata tra il 1862 e il 1863 in seguito alla ristrutturazione del tetto, del soffitto e delle mura perimetrali della chiesa, e all’erezione di quattro pilastri all’interno dell’aula. Prima dei lavori ovviamente i dipinti su tavola del soffitto furono rimossi, contrassegnati e numerati, in modo che potessero – così annotò il progettista, ingegnere Girolamo Simonetti – «essere ricollocati a sito conservando l’attuale distribuzione e giacitura».

Interno di S. Giovanni dopo i restauri ottocenteschi. Da G. Bragato, da Gemona a Venzone, 1913


            A quel tempo il soffitto non era costituito soltanto dai quarantadue dipinti di Amalteo. Vi si aggiungevano quattordici di Gaspare Negro, pittore udinese al quale era stata affidato il lavoro prima del del giovane Amalteo[4]. Sicché il complesso dei quadri si articolava su sei file longitudinali, quattro composte di undici cassettoni e due di dieci (otto riquadri restarono vuoti), separati l’uno dall’altro da cornici delle quali non rimane traccia ma che dovevano per forza essere di dimensioni esigue, se pensiamo che in uno spazio di circa 18×11 metri (circa 200 mq) erano stipati 56 dipinti, ciascuno dei quali – se prendiamo come riferimento quelli di Amalteo – era alto tra i 135 e i 140 cm e largo tra i 145 e i 150 cm., con la vistosa eccezione di due pezzi amalteani di cm. 171×150 e 172 x147.
            La disposizione originale seguiva una precisa iconologia, segnalata per la prima volta dal segretario comunale dell’epoca, Antonio Zozzoli, che in un articolo comparso su «La Patria del Friuli» del 10 giugno 1883 scriveva: «La primitiva disposizione delle tavole era tale che […] la prima fila portava i Profeti, la seconda le Sibille, la terza e la quarta, ch’erano le mediane, aveano Apostoli e Santi, tra i quali primeggiava la Vergine col Bambino, la quinta mostrava tutte Sante Vergini in riscontro delle Sibille, e l’ultima Profeti come la prima»[5].

La nuova distribuzione ottocentesca dei dipinti

            L’importanza esclusiva attribuita ai dipinti di Amalteo, che indusse a scartare quelli di Ga-spare Negro, dipese senz’altro dalla superiore qualità pittorica amalteana. Ma perché modificare l’organizzazione spaziale e iconologica ideata dal Pomponio? Al giudizio estetico si associò una considerazione pratica: la diminuita capienza dell’aula, che dopo i restauri si ridusse a 17.59×10.30×7.15 m[6]. La riduzione delle spazio disponibile obbligò a ridurre da sei a cinque le file longitudinali, ciascuna delle quali ospitò così non più sette ma otto cassettoni, con i due residui disposti isolatamente in fondo all’aula, sul lato della cantoria. La riduzione delle file da sei a cinque avrebbe fatto bastare i poco più di dieci metri di larghezza dell’aula, che a differenza della lunghezza, era la dimensione critica, ma avrebbe richiesto di approntare nuove cornici, di ampiezza sufficiente ad attribuire respiro e giusta prospettiva ai 42 dipinti.

Profeta Giosuè. Foto di G. Marini
Sibilla Ellespontia. Foto di G. Marini


            Si sarebbe potuto fare altrimenti? No. Ridotta la larghezza dell’aula a 10.30 m, per rispettare l’ordine originale si sarebbero dovuti disporre su ciascuna fila trasversale sei cassettoni. Una volta impegnati nove metri circa con la pura superficie pittorica, lo spazio disponibile tra le tavole si sarebbe ridotto a non più di 20 cm. Ciò avrebbe ingenerato squilibrio e disarmonia spaziale e quindi una confusa visione d’insieme dell’opera. Oltretutto, mantenendone la precedente disposizione, la lunghezza dell’aula sarebbe stata sfruttata soltanto parzialmente.
            Fu giocoforza pertanto abbandonare la primitiva disposizione «sette per sei», con tutte le conseguenze del caso, che Zozzoli sottolineò: «E quindi, la primitiva disposizione resa impossibile, le Sante verranno scaraventate fra i Profeti, le Sibille incrociate con gli Apostoli»[7]. In effetti, chi dopo il 1885 (quando il restauro delle tempere terminò e le tavole furono ricollocate) si fosse posto nell’aula, sotto la cantoria, e avesse traguardato il soffitto in direzione dell’altare, avrebbe visto – e avrebbe continuato a vedere fino al 5 maggio 1976 – non più sei serie di sette tavole, ciascuna figurativamente omogenea, cioè la prima a destra composta di sette Profeti, la seconda di sette Sibille [ cfr. figg. 7-9], ecc., ma il nuovo ordinamento «otto per cinque (+2)», cioè cinque serie di otto tavole, con le figure disposte un po’ a caso, ma separate l’una dall’altra dalle ampie fasce (55 cm. ca.) create dalle cornici lignee dorate.
            In sintesi: la lunghezza dell’aula venne così quasi interamente occupata dai cassettoni, fatta eccezione per lo spazio triangolare in corrispondenza della cantoria, ove vennero disposti i due dipinti amalteani «avanzati». Le otto file trasversali presero per intero la larghezza dell’aula, fatta eccezione per le due fasce di soffitto impegnate dai quattro pilastri. Con il restauro della chiesa l’effetto figurativo del soffitto, pur avvantaggiandosi di una più armoniosa distribuzione spaziale, divenne se non caotico certamente insensato sotto il profilo iconologico. Questa fu, in ogni modo, l’immagine del soffitto amalteano che i gemonesi per un secolo tennero nella memoria.

La riproposizione del soffitto di Amalteo

            Queste mie note sono funzionali alla ricollocazione del soffitto amalteano e inducono a considerazioni che potrebbero orientare in proposito la politica culturale della Regione FVG.

Sibilla Persica. Foto di G. Marini

            1. La prima e più importante questione da affrontare è sull’unità dell’opera, oggi ridotta alle trentasei tavole superstiti, da riproporre, con le opportune modalità, nella configurazione originaria. Ciò significa, in altre parole, scegliere non l’ordinamento dei dipinti amalteani posteriore alla ristrutturazione dell’aula del 1862-63, ma quello preesistente, ampiamente documentabile. Perché un gemonese ne comprenda bene il senso sarebbe sufficiente chiedergli se riterrebbe giusto – nel corso di un restauro – staccare e riapplicare a caso le formelle lignee dell’Ancona di Moranzone (1391-1392) del Duomo di Gemona, che raccontano le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento. In generale, basterebbe interrogarsi sulla correttezza e il buon senso di mantenere la numerazione errata delle carte di una cronaca medievale di un manoscritto mal legato nell’Ottocento, con il pretesto che ci è pervenuto così.
            2. Il significato narrativo dell’opera può rivivere però soltanto a condizione che la «scatola visuale» nella quale sarà situata sia giusta. Per intenderci: un complesso di dipinti che impegnava gran parte degli oltre 180 metri quadri di superficie del soffitto della Chiesa di S. Giovanni non può essere colto unitariamente se non ad una distanza conveniente, specie in considerazione della tecnica usata da Amalteo, i cui tratti pittorici, compatti se percepiti alla distanza di sette metri, potrebbero riuscire invece grossolani o rozzi se visti a distanza di molto inferiore alla distanza originaria tra la superficie pittorica e il pavimento dell’aula.

Disegno della disposizione originaria dei dipinti. Archivio Comunale di Gemona

Soluzioni possibili

           

Una soluzione «puristica» sarebbe la ricostruzione dell’aula di S. Giovanni, seguendo la linee progettuali già individuate nei primi anni Ottanta dall’arch. Alberto Antonelli e in seguito rivisitate dal gruppo di architetti A. Antonelli, Gianpaolo Della Marina e Sandro Pittini. La destinazione dell’aula principale ad auditorium doterebbe il Comune di una sala pubblica capace, nello spazio edilizio che il piano di ricostruzione del centro storico ha destinato alla riedificazione della chiesa. Chiunque osservi da via S. Giovanni la quinta cieca eretta in corrispondenza del lato orientale della chiesa, capisce infatti che gli edifici che si affacciano da un lato sulla piazza Garibaldi, e dal lato opposto sulla via S. Giovanni, sono stati realizzati tenendo conto, grosso modo, del vincolo della ricostruenda chiesa.

L’alternativa non puristica è la ricostruzione del volume della Chiesa di S. Maria della Grazie, su via Caneva [cfr. fig. 10] e della quale si conservano oggi scalinata, parte della facciata e il pavimento dell’aula. E’ importante notare che, demoliti l’edificio della Società Operaia e la chiesa delle Grazie, si è creato sulla via principale della città un vuoto edilizio, reso ancora più sensibile dall’incombere, a levante, del massiccio ingombro della Casa dello studente. La recente riqualificazione dell’arredo urbano, che ha interessato il tratto antistante di via Caneva, rende l’area, a parer mio, ancor più bisognosa di un intelligente intervento di riequilibrio di spazi e volumi, vuoti e pieni. Sotto il profilo della funzionalità urbana, la ricostruzione della chiesa delle Grazie e la sua destinazione ad auditorium sarebbe la soluzione ideale, sia per la facilità dell’accesso, sia per l’ampia disponibilità circostante di parcheggi.

Ruderi dell’aula di S. Maria della Grazia. Foto di G. Marini
Ruderi dell’aula di S. Maria della Grazia. Foto di G. Marini

Giuseppe Marini

Gemona del Friuli, 25 aprile 2022.


[1] Giovanni Pietro Nimis, Autobiografia di una ricostruzione. Il modello Gemona-Magnifica Comunità, introduzione di Guido Crainz, Centro Studi Accademia, Gemona 2016, p. 28. Nimis è stato l’estensore del pia-no di ricostruzione di Gemona. E’ un libro che va letto per comprendere la complessità, politica e ideologica, sottostante la ricostruzione.

[2] Ivi, p. 169. Per un confronto visivo tra la piana di Gemona degli anni Sessanta e l’attuale vedi le figg. 1 e 2.

[3] «E io dovrei andare ad abitare in un condominio?». Cfr. op. cit., p. 29. «Su quaranta persone presenti all’assemblea – rilevò Nimis – solo una mostrerà un cauto interesse a non abitare nel nulla». Ivi, p. 30.

[4] V. Baldissera, La chiesa di S. Giovanni in Gemona e il suo soffitto dipinto da P. Amalteo, Udine, Doretti, 1884, p. 12. Scrive Baldissera a proposito di Negro («l’altro autore») che il soffitto era «diviso in 64 scompartimenti rettangolari [uno spazio, ampio quanto due scomparti, restava indiviso], otto dei quali non portavano traccia di dipinto; quattordici rappresentavano mezze figure di Apostoli, Profeti e Sibille in un tondo iscritto nel rettangolo, condotte con crudezza di disegno e di colore […] non una cornice, non un rosone, non una scheggia di tutto il soffitto serbarono […] e se ancora rimangono tre o quattro delle tavole dell’altro autore è in grazia che le adoperarono come materiale a racconciare altri manufatti […]».

[5] Cfr. Giuseppe Marini, Una vita in disparte, in Valentino Baldissera 1840-1906, a cura di G. Marini, Comune di Gemona del Friuli, Gemona 2006, p. 140. Tale distribuzione è visibile nel disegno del soffitto qual era prima della ristrutturazione della chiesa. Cfr. fig. 6.

[6] Gianni Vale – Studio Crapiz, Rilievo della chiesa di San Giovanni in Gemona, in Biblioteca Comunale di Gemona del Friuli.

[7] G. Marini, op. cit., pp. 140-141.

Il tema dellAttesa, declinata in varie forme, è il flo conduttore di questo numero di BlogNotes.
In particolare ci interessava soffermarci su alcune fasi della ricostruzione di Gemona dopo il terremoto del ‘76. Abbiamo chiesto al professore Giuseppe Marini, storico e testimone di queste vicende successive al sisma, una riflessione che comprendesse, oltre agli aspetti storici della ricostruzione, anche alcune attese in ambito culturale non ancora realizzate. Tra queste, assume particolare importanza la ricollocazione dei 42 lacunari dipinti a tempera da Pomponio AMALTEO nel 1533, che formavano il soffitto della chiesa di S. Giovanni, distrutta dal sisma. Oggi queste tavole lignee si trovano nei fondi del Comune di Gemona.
Il nostro intento è quello di creare un interesse, per una riproposizione e la ricostruzione storica del soffitto di Amalteo. Una autentica ricchezza per tutto il nostro territorio. Un seguito in linea con le recenti e importanti iniziative in ambito regionale che hanno riguardato il Pordenone e Pilacorte.


la Redazione di BlogNotes