Il concetto di memoria è, nel linguaggio comune, associato alla mente come un processo biologico che permette agli esseri viventi di conservare e ricordare esperienze.
Nel linguaggio della fisica moderna la memoria può essere intesa in modo più ampio come la conservazione dell’informazione del tempo.
Pensiamo al cielo stellato e a quando durante le notti estive ci stendiamo sul prato ad osservare la distesa scura sopra di noi, abbiamo l’impressione di osservare qualcosa di eterno e immutabile, eppure ciò che vediamo non è il presente dell’universo, ma il suo passato.

L’universo ha, in un certo senso, una memoria. Ogni fotone – la particella “messaggero” della luce – che raggiunge il nostro sguardo ne è un frammento. È come se lo spazio fosse pieno di lettere e dipinti inviati miliardi di anni fa che ci raggiungono solo ora.
La velocità della luce è il limite massimo nell’universo, nulla viaggia più velocemente – è un postulato della relatività di Einstein – ma non è istantanea. Ecco che il Sole che vediamo non è il Sole di questo istante, ma quello di otto minuti fa, perché questo è il tempo impiegato dalla luce per viaggiare dalla nostra stella fino alla Terra. E così vediamo la Luna con un secondo di ritardo, Betelgeuse (la spalla di Orione) com’era nel Medioevo (circa 600 anni fa) e la galassia di Andromeda com’era quando sulla Terra vivevano i primi australopitechi (2,5 milioni di anni fa): il cielo è un archivio del tempo, ogni oggetto che vediamo parla di un’epoca diversa.
Esiste però una luce che viene da un tempo ancora più remoto: la radiazione cosmica di fondo. L’universo è nato circa 13,8 miliardi di anni fa con il Big Bang, che ha liberato enormi quantità di energia.

Nei primi istanti, l’Universo era così caldo e denso che la luce non poteva viaggiare liberamente, ma veniva assorbita e riemessa continuamente come se fosse intrappolata in una nebbia molto fitta. Solo dopo circa 380.000 anni la luce è stata libera di propagarsi liberamente, perché l’universo si era raffreddato abbastanza da permettere la formazione degli atomi. È in questo momento che nasce la radiazione cosmica di fondo: una debole radiazione a microonde che permea tutto lo spazio e interagisce poco o nulla con la materia, ma la cui lunghezza d’onda, solidale con la trama del cosmo, si è allungata man mano che l’universo si espandeva.
Le piccolissime variazioni di temperatura che si rilevano al suo interno, permettono di comprendere la distribuzione della materia nei primi momenti di vita dell’universo e da cui in seguito si sono formati stelle, galassie e pianeti. È una sorta di eco del Big Bang, una prova del fatto che ha avuto un inizio caldo e si è evoluto nel tempo.
La memoria dell’universo non è, però, affidata solo alla luce. Quando oggetti molto massicci come buchi neri o stelle di neutroni si scontrano, generano increspature nello spazio-tempo chiamate onde gravitazionali. Previste da Einstein e osservate per la prima volta nel 2016, esse viaggiano alla velocità della luce e permettono di rilevare eventi cosmici lontani miliardi di anni luce. La cosa più affasciante delle onde gravitazionali è che lasciano una traccia permanente detta memoria gravitazionale, perché una volta allungato e ristretto, lo spazio-tempo non torna com’era prima.

Ogni volta che alziamo lo sguardo stiamo quindi facendo qualcosa di straordinario: guardiamo indietro nel tempo. La memoria dell’universo non è registrata su carta, ma incisa nella luce, nelle onde e nello spazio stesso. Studiare queste tracce ci permette di capire da dove veniamo, come si è evoluto il cosmo e prevedere dove potremmo andare.
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